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Le birre artigianali italiane che hanno fatto la storia raccontate dai loro creatori

Tracciare i tratti salienti della storia delle birre artigianali italiane può essere complicato. Questo perché un ragionamento che si ritrova a fare i conti col gusto coinvolge percezioni personali, sensi, storie e, perché no, anche i ricordi. Sono incalcolabili le variabili per cui qualcosa ci piaccia in un dato momento e, magari, non lo faccia subito dopo, i casi in cui l’amaro di quell’IPA si sposava benissimo appena atterrati sull’isola, e meno quella volta in cui ci si ghiacciava fuori a meno 10 gradi. Per certi versi sarebbe anche sbagliato e meno divertente se non fosse così, se tutto si potesse ricondurre a una sterile e analitica visione oggettiva. Probabilmente è proprio questa personalissima tendenza a dare una visione personale e applicarsi perché diventi comprensibile a permetterci di essere qui a parlare di birre artigianali in Italia.

Qualcuno una volta ha detto che tutte le più grandi imprese nascono da una mancanza a cui si vuole dare risposta. A noi piace pensare, invece, che tutto provenga da un’aggiunta. Che lì, nei primi come negli ultimi birrifici, sia la volontà di aggiungere la propria visione a quella già esistente, che sia trasformare l’idea di birra artigianale nel nostro paese o, semplicemente, dare al proprio gusto la possibilità di esprimersi e, soprattutto, di essere capito. A volte questo ha portato a ridefinire gli stili o a inventarne di nuovi, di provare complicatissimi procedimenti sulla flora batterica, tirando fuori da mosti, frutti, botaniche tutte le possibili combinazioni, osando quantità di malto e luppoli oltre l’ordinario. Ma oltre la tecnica, ogni birra artigianale racconta la storia di chi c’è dietro, dei tentativi e dei fallimenti che hanno portato al risultato finale. A noi tocca il compito di gustare e, in qualche modo, cercare di comprendere.

Qualsiasi sia stata la ricerca, il tentativo o l’opportunità dietro a queste imprese, quando ci siamo chiesti quali fossero le birre artigianali italiane che hanno lasciato un segno nella giovane storia di questo movimento l’abbiamo fatto nell’unico modo che conosciamo: abbiamo chiesto per mesi a bevitori e bevitrici, mastri birrai e mastre birraie, professionisti e professioniste dal più grande al più piccolo birrificio, pub, shop, ufficio distribuzione e bancone reale o virtuale sparso nel paese, di raccontarci quali fossero per loro le birre artigianali italiane che più hanno contato nel loro percorso. A livello di gusto, di ispirazione o, semplicemente, di piacere. Le abbiamo raccolte e inserite in un Excel e incrociato le risposte. Siamo poi andati direttamente da chi, quelle birre artigianali, le ha fatte nascere, ragionando insieme sulle loro storie, sui motivi, sui gusti che hanno contribuito a cambiare il modo in cui ci approcciamo e concepiamo la birra artigianale, superando il prodotto per condensarlo in un fatto personale e, perché no, culturale.

Quello che troverete è quindi questo, una lista incompleta sulle birre artigianali italiane, non volontariamente oggettiva che vuole ragionare più sulle storie dietro le birre, raccontate direttamente dagli artigiani e dalle artigiane dietro la loro creazione.

L’immagine di copertina, le fotografie e i set sono a cura di Ginevra Romagnoli, che trovate qui

 

Ho cercato la mia espressione nel luppolo – Agostino Arioli e la nascita della Tipopils 

Tipopils, Birrificio Italiano – Italian Style Pilsner

 

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Potrebbe essere un racconto di tempi lontani, ed ovviamente lo è essendo Agostino Arioli fra i pionieri delle birre artigianali italiane, ma non è un racconto dal sapore di vecchio e, tanto meno, immutabile. La Tipopils è il racconto delle origini, di un mistico incontro fra il luppolo e un artigiano, ma anche quello della sua contemporaneità, di una evoluzione mai quieta. Siamo vicino a Como e, la birra, tanto meno quella artigianale, in Italia ancora non esiste. O, meglio, esiste ed è immortalata dal Peroncino di Fantozzi alla tv, è la ‘bionda per la vita’ in un terribile spot, o la bevanda refrigerante estiva, cartoline che sembrano provenire da un mondo lontano. Agostino Arioli però ha in mente qualcosa di diverso che un viaggio in un luppoleto tedesco rende ancora più chiaro: “Il raccolto del ’96 è stato uno dei momenti in cui ho iniziato a conoscere più intimamente il luppolo. È lì che mi è scattata l’idea di usarlo in tutti i modi e ho cominciato a ragionare sul suo possibile utilizzo. L’illuminazione mia, se vuoi, è stata vedere questa operazione fatta sui Cask inglesi, è questo che racconto sempre, mi sono davvero chiesto ‘Ma se lì si mette questo plug di luppolo nella birra perché non posso farlo nei miei serbatoietti?’. La Tipopils nasce su una ricetta base per una comune Pils tedesca a cui a un certo punto, pochi mesi dopo la prima cotta, ho iniziato a fare questo dryhopping di luppolo, direttamente appeso – buttato in realtà, almeno all’inizio – per poi servirlo direttamente alla spina. Volevo che i bevitori sentissero il luppolo, il profumo e il suo sapore. Ho cercato il mio modo per esprimere questo suo carattere, volevo riportare in vita il luppolo perché in Italia in quel periodo ancora non esisteva”.

Volevo che i bevitori sentissero il luppolo, il profumo e il suo sapore. Ho cercato il mio modo per esprimere questo suo carattere, volevo riportare in vita il luppolo perché in Italia in quel periodo ancora non esisteva.

Dopo anni passati come homebrewer clandestino, parte di un piccolo manipolo sparso per il paese (“Nell’85 quando ho cominciato forse eravamo io, Max Faraggi e altri tre o quattro fuori di testa”, ricorda Agostino), nel 1996 apre Birrificio Italiano che, insieme a Birrificio di Lambrate e Baladin, costituiscono la trinità originale per la nascita della birra artigianale italiana. Il primo Birrificio Italiano era un locale annesso al sito di produzione da cui, attraverso dei serbatoietti, la birra viene servita direttamente in spina. I primi risultati, come ricorda lui stesso, però non furono dei migliori. Un paese in cui non esiste la birra non ha neanche una schiera di bevitori. È proprio questo che rende l’idea dell’impatto, dell’importanza della Tipopils e di tutto il lavoro di Agostino Arioli, anche quando credere nella propria idea avrebbe potuto portare alla fine della propria attività: “Nel ’96 quando si parlava di Pils le persone si aspettavano probabilmente una Heineken, dell’approccio ceco o tedesco non c‘era la minima idea. I primi approcci sono stati abbastanza difficili. Dopo un anno, nel secondo bilancio abbiamo dovuto ricapitalizzare, perché altrimenti saremmo falliti. Abbiamo cominciato a lavorare solo alla fine di quel secondo anno, all’inizio la gente era sconcertata soprattutto in un posto come Lurago Marinone perché la birra non era ghiacciata, era con la schiuma, era torbida, era amara, ci volevano dieci minuti per avere un bicchiere. Ma questo indipendentemente dal discorso Tipopils e del dry hopping. Era un problema legato alla birra artigianale in generale, molti allora non credevano che la birra si potesse fare in piccolo e, soprattutto, in Italia”. [continua la lettura]

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Il racconto completo sulla nascita della Tipopils continua qui

 

Dall’uva, la birra – Nicola Perra sulla BB10, la prima Grape Ale

BB10, Birrificio Barley – Italian Grape Ale su base Imperial Stout

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Qual è il primo gusto che ricordiamo? E in che modo questo si lega alla nostra storia, cosa racconta di noi, come ha influito sulle nostre esperienze, si chiedeva Anthony Bourdain ricordando l’infanzia in Kitchen Confidential. In qualche modo i profumi e i gusti a cui siamo più legati sono quelli, sottolineava il cuoco americano, che parlano di casa. Nel caso di Nicola Perra e la BB10 riguarda le lunghissime cotte preparate nei pentoloni, il territorio, un frutto – i frutti – della terra sarda, in particolare ai vitigni e alle uve che custodiscono l’isola del Mediterraneo da millenni: “Fino al 2005 la mia famiglia ha sempre storicamente avuto dei vigneti, alla fine della vendemmia raccoglievamo i grappoli rimasti, si faceva una pigiatura veloce e poi si metteva a bollire il mosto, scremandolo e ripulendolo. Era una cottura lenta e continua, che durava anche venti ore per ottenere la sapa, il mosto cotto d’uva, che poi mia madre utilizzava per preparare il pan di sapa o i papassini, che fanno parte delle tradizioni dolciarie del cagliaritano e di tutta la Sardegna, con nomi e uve diverse. La particolarità di questo mosto cotto è che può essere conservato anche per anni senza nessun conservante perché, essendo un trattamento termico prolungato, la sua concentrazione zuccherina è molto elevata – stiamo parlando di un rapporto 1 a 5 rispetto al mosto iniziale – e si riduce fino a un quinto diventando bello denso e permettendosi di conservare nel tempo. Mentre sperimentavo alcune birre da homebrewer ho pensato che questo potesse essere un materiale fermentabile interessante per fare una birra”.

Da lì ho capito che il vitigno poteva andare d’accordo con la ricetta di malti, luppoli, lieviti ma, perché avesse un senso, dovevo cucirgli addosso un abito che potesse dargli ancora più forza.

Da quelle prime prove, realizzate con l’aggiunta diretta del mosto di uva bianca agli ingredienti necessari per una Imperial Stout, Nicola Perra fa nascere la BB10, la Grape Ale originale. Quello del birrificio Barley è un percorso che, inevitabilmente, ha dei tratti pionieristici, scrivendo un capitolo nuovo nell’uso della frutta, ma attraversa lo studio e la pratica artigiana, alla ricerca di una sfumatura ben precisa che, successivamente troverà nel Cannonau, il vitigno forte e risonante, tipico della Sardegna: “Non ho usato da subito il Cannonau, ci sono arrivato per gradi perché non essendoci una bibliografia in merito da nessuna parte, in qualunque lingua, allora ho dovuto fare da me, portando avanti più che altro una base empirica di queste sperimentazioni. Sono partito con delle uve bianche, se non ricordo male c’era il Nasco, il Trebbiano, il Nuragus, che ho messo in una ricetta base di Imperial Stout da dieci gradi, facendola poi affinare in bottiglia per dieci mesi. Notavo che c’era una certa evoluzione ma che c’era qualcosa di più che si poteva fare, così provai con il Cannonau. Feci una cotta in casa con la stessa modalità che avevo già sperimentato e notai che effettivamente la birra aveva una marcia in più. Da lì ho capito che il vitigno poteva andare d’accordo con una ricetta di malti, luppoli, lieviti ma, perché avesse un senso, dovevo cucirgli addosso un abito che potesse dargli ancora più forza”. [continua la lettura]

Puoi acquistare la BB10 del Birrificio Barley qui

Il racconto completo sulla nascita della BB10 continua qui

 

Volevo superare i limiti – La Xyauyù di Baladin raccontata da Teo Musso 

Xyauyù, Baladin – Speciality Beer

Ossidazione può essere una parola spiacevole. Ci porta alla mente un sapore ferroso e acetico, dagli estremi sanguinei come la patina rossastra di qualcosa che arrugginisce e si degrada. Per la birra vale lo stesso, segna la sua fine, un difetto di produzione, qualcosa che non è andato come doveva. Eppure è proprio l’ossidazione, questo processo chimico che prevede la perdita di elettroni da parte di una sostanza a favore di un’altra – generalmente l’ossigeno -, a permetterci di respirare. È, di fatto, una forza generativa. Per Teo Musso è diventata una possibilità per spingersi oltre i limiti della birra stessa, di fare di un problema, una opportunità. Quella di Xyauyù è una sfida produttiva, che mette in discussione regole e indicazioni, ma è anche una sfida al gusto, alla struttura di ciò che siamo abituati a bere. “Nel 1996”, ricorda il fondatore di Baladin, “ho iniziato la produzione di birra, dopo dieci anni di gestione di un locale di musica e birra a Piozzo. Com’era successo nell’86, quando avevo aperto il pub, i miei genitori mi guardarono come se fossi pazzo. A Piozzo non si beveva la birra e già avevo aperto un locale specializzato, dieci anni dopo mi ero messo in testa pure di produrla. Mio padre, che non parlava quasi mai come i contadini di una volta, dopo aver perso le speranze, in modo provocatorio mi disse che il giorno in cui sarei riuscito a fare una birra più buona del vino mi avrebbe dato ragione. Lo stimolo della Xyauyù è nato da lì”.

La trasformazione definitiva di Baladin in brewpub non parte nel modo migliore e la quasi totalità dei clienti, di fedeltà decennale, non viene convinto dalle nuove birre e non torna più al locale. In questo momento drammatico Baladin si ritrova a produrre le sue prime birre (Blonde e Ambrée, poi Super e Brune) senza avere ancora un mercato, un aspetto in comune con i pionieri delle birre artigianali italiane – vedi Birrificio Italiano e Lambrate -, Musso decide di spingere in una direzione ancora più estrema e creare la base di quello che sarà Xyauyù: “Quando ho iniziato il percorso di produzione nel ‘96 nei primi due mesi ho perso quasi l’80% dei clienti del pub, per cui siamo arrivati sull’orlo del fallimento. Stuzzicato da mio padre in quella direzione, con il parecchio tempo che mi avanzava, ho deciso di fare quello che mi ha sempre guidato nella mia vita, cioè creare cose nuove. Ho sempre fatto fatica a bere vino oltre i 12-13 gradi o altre bevande particolarmente acide e, così, mi sono appassionato all’interpretazione inglese, che esaspera un difetto, quello dell’ossidazione, facendolo diventare una caratterizzazione molto piacevole, riassumibile in quello che oggi è Jerez, Madeira, Porto Soleras.. Il processo di esasperazione dell’ossidazione di questi vini, paradossalmente, va a creare un bilanciamento e una caratterizzazione aromatica veramente piacevole, così ho provato a capire come questo sarebbe potuto funzionare nella birra, e con quali risultati”. [continua la lettura]

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Cercavo la mia tradizione – Valter Loverier e la creazione di Nebiulin-a 

Nebiulin-a, Loverbeer – Sour Aged Fruit Ale

 

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Come spesso capita, i borghi sparsi nelle vallate italiane sono culla di piccole realtà artigiane che, in maniera silenziosa, coltivano e rinnovano i saperi, agendo in contemporanea come difensori e innovatori delle tradizioni, a volte inventandone direttamente di nuove. Marentino è il piccolo comune di poco più di mille abitanti, a venti chilometri da Torino, in cui Valter Loverier dal 2009 produce birre artigianali italiane che parlano di tempo, di attesa e del momento opportuno in cui agire. Nei laboratori di Loverbeer, ispirato dalla tradizione belga e del nord Europa, Loverier gioca con le stagioni e i frutti, studiando le loro interazioni dentro e fuori le botti, ricostruendo un’avanguardia delicatamente intrecciata col territorio. Un approccio che si carica di toni magici, e forse inspiegabili, alla base delle fermentazioni miste e selvagge e della dedizione, totale, che serve per creare birre come la Nebiulin-a: “Tutto nasce dal fatto che volendo fare questo tipo di birre ho pensato di dovermici dedicare al cento per cento”, ci racconta, “Ho sentito che fosse necessario fare un po’ come il mio mentore Cantillon 100 anni dopo e creare in un paese come il nostro una tradizione che ancora non c’era. Si tratta veramente di una scommessa particolare perché la strada a questo tipo di birre artigianali italiane non era e non è ancora aperta”.

Tutto nasce dal fatto che volendo fare questo tipo di birre ho pensato di dovermici dedicare al cento per cento, ho sentito che fosse necessario fare un po’ come il mio mentore Cantillon 100 anni dopo e creare in un paese come il nostro una tradizione che ancora non c’era

Già dal primo anno, Loverier inizia a maturare l’idea di comporre un tipico blend fra diverse annate, alla maniera delle Geuze belghe, per dare i natali alla Nebiulin-a, la sua birra più lunga e complessa (almeno in termini produttivi). Nebiulin-a si costituisce quindi come un ibrido, dai tratti unici e personali, che mescola tre annate consecutive di Bieres du Lambic, come chiama le basi di partenza, per incrociare poi termini di Sour, Grape Ale, Wild e Barrel Aged. Ad agire sono tanti e diversi processi, ma sono soprattutto le storie – di lieviti presenti e futuri, di frutti, di stagioni e di territori – che si mescolano fra loro, portando la bevuta su un’acidità vivace nella sua gioventù, per poi strutturarsi e trasformarsi nel tempo: “Per la Nebulin-a, paradossalmente è nata prima la birra dell’idea ma semplicemente perché, come nei Fruit Lambic, si parte dalla preparazione della base e, poi, si caratterizza con la frutta. Ho iniziato a fare queste basi già nel 2009, durante il primo anno di apertura, e già dalla seconda-terza cotta di queste che chiamo Bieres du Lambic, ho iniziato a collezionarle e a utilizzarle per fare le prime produzioni di BeerBrugna, di Press Perdu, ecc.. Da lì però è nata l’idea di provare a tenere qualche cotta da parte per fare qualcosa che potesse essere un tributo alle Geuze che, tipicamente, sono composte da tre annate blendate tra loro, ma con la mia interpretazione. Ho selezionato quindi una di queste produzioni, spostandola in barriques dedicate e, così, ho fatto i due anni successivi. Ho cominciato, nel frattempo, a maturare l’idea su come avrei voluto caratterizzarla e questo mi ha portato a voler celebrare quella che era la mia regione di provenienza”. [continua la lettura]

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Riscoprire la densità – Il sabba di malto della Papa Nero spiegato da Giovanni Faenza

Papa Nero, Ritual Lab – Russian Imperial Stout

A metà degli anni ‘10, il movimento delle birre artigianali italiane è ampiamente uscito dagli anni di gestazione e si sta sviluppando rapidamente in micro scene regionali che si affiancano alle realtà storiche del nord. La scena romana è fra le più attive e più interessanti che, spinta da luoghi iconici come l’Off License e il Ma che siete venuti a fa’, comincia a mostrarsi non solo come un crocevia di esperienza ma una vera e propria fucina di nuovi produttori. Il lavoro di Giovanni Faenza e di tutto il progetto Ritual Lab, va forse analizzato in questo modo, nella capacità di imporsi sulla scena nazionale attraverso un approccio tradizionale– con varie frequentazioni nel luppolo americano – per poi, quasi dieci anni dopo, aprire un nuovo capitolo a partire da una proporzione di acqua e malto surreale che, come in un sabba birrario, dà alla luce la Papa Nero destinata a riscrivere le regole in fatto di birre scure italiane e riconfigurare la strada del birrificio stesso.

Per ottenere quello che volevamo dovevamo andare contro alcune delle basi del produrre birra, in modo convenzionale, correre il rischio che un impasto così importante potesse creare seri problemi all’impianto produttivo.

L’idea di ripartire dai malti e produrre una nuova birra scura nasce da lunghe sessioni al bancone e da un incontro, quello con Vodoo Brewery e il suo birraio Curt Rachocki, che avvicina Giovanni Faenza a un nuovo modo estremo di concepire i rapporti sulle quantità degli ingredienti, ma anche alla possibilità di utilizzare gli strumenti oltre i loro limiti tecnici: “La Papa Nero nasce dal mio amore per le Imperial Stout e dal fascino di poter creare un prodotto che potesse migliorare nel tempo. Era un modo di concepire la produzione che, al tempo, mancava nella nostra realtà da sempre specializzata su stili tedeschi e americani in cui è la freschezza a fare la differenza. La collaborazione con Vodoo Brewing ci ha praticamente iniziato alla produzione di quelle che vengono chiamate big beers, che necessitano di metodi produttivi che sono totalmente diversi da quelli convenzionali, anche dal punto di vista tecnico, in cui gli impianti vengono modificati e utilizzati quasi in maniera impropria per supportare questa produzione”. [continua la lettura]

Puoi acquistare la Papa Nero di Ritual Lab qui

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La birra come manifesto – Crak e lo scoppio della Guerrilla

Guerrilla, Crak – IPA

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Crak è uno di quei birrifici che non ha mai cercato una via di mezzo o una strada facile per raggiungere i propri obiettivi. Non l’ha fatto nel 2015 quando nella scena delle birre artigianali italiane, ormai satura di IPA, ha alzato il pugno chiuso e sganciato Guerrilla, o quando ha messo in discussione il modo in cui la birra esce dal birrificio arriva al bevitore. In mezzo la sfida dell’autoproduzione agricola per quanto riguarda alcune delle loro materie prime (in primis l’orzo), e le missioni nella valle di Yakima per scegliere direttamente i luppoli alla base delle loro birre. Guerrilla è sempre stata lì, a rappresentare un po’ tutta questa storia ma, soprattutto, la voglia di non accontentarsi e di rompere – rumorosamente – le convenzioni: “La Guerrilla”, racconta Claudio che, insieme ad Anthony, Marco e Giorgia ha fondato il birrificio, “È nata con l’obiettivo di diventare un manifesto su ciò che siamo e sul nostro modo di fare e interpretare le cose. È stata negli anni la nostra portavoce nella lotta per la qualità della birra, il nostro contributo a rivoluzionare il settore ma non solo, è il modo con cui supportiamo le associazioni locali, l’idea attraverso cui vogliamo portare un cambiamento positivo nelle nostre vite. I tanti pugni che oggi sono sull’etichetta vogliono rappresentare la diversità delle lotte, in cui ognuno di noi deve continuare a credere in quello che fa e a lottare perché accada. La Guerrilla per noi è questa lotta, ancora oggi ci dà questa forza”.

Dopo anni di cotte casalinghe e un’esperienza come brew firm, nel 2015 Anthony, Marco, Giorgia e Claudio decidono di fare un passo decisivo e aprire Crak partendo proprio dalla Guerrilla con la precisa intenzione di aggiungere una voce nuova a quella che, fino a quel momento, era la concezione delle birre artigianali italiane. Accanto alle grandi sperimentazioni e le grandi ricerche su ingredienti e fermentazioni, infatti, i ragazzi e le ragazze di Crak decidono di avvicinarsi alla nuova wave americana in fatto di freschezza ma, soprattutto si accorgono di come la potenzialità sociale del ‘prodotto birra’ possa diventare anche un luogo di rivendicazioni, di dare un senso e un impulso trasformativo a ciò che fanno, anche se questo avrebbe potuto significare un grande rischio per loro e l’attività: “Abbiamo fatto un investimento importante per far partire il birrificio, prendere i capannoni, ristrutturarli, comprare l’impianto. Per partire tutto deve essere al top, devi essere pronto con i macchinari, le etichette, le bottiglie. Ogni tanto riguardiamo le foto della nostra prima cotta di Guerrilla e ricordiamo come quel giorno fosse pieno di preoccupazioni. Era una sliding doors a tutti gli effetti, solo dopo averla imbottigliata avremmo capito se ne sarebbe valsa la pena. Ci credevamo, ed eravamo sicuri di quello che stavamo facendo ma, allo stesso tempo, c’era la paura di cadere, che avrebbe significato, fra le altre cose, fallire economicamente”.

I tanti pugni che oggi sono sull’etichetta vogliono rappresentare la diversità delle lotte, in cui ognuno di noi deve continuare a credere in quello che fa e a lottare perché accada. La Guerrilla per noi è questa lotta, ancora oggi ci dà questa forza.

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Lambrate, via Bamberga – La storia della Ghisa racconta da Fabio Brocca

Ghisa, Birrificio Lambrate – Smoked Stout

Lambrate Adelchi è un luogo mistico. Regno di questi principi e monarchi che hanno contribuito, in un periodo non troppo lontano, a far partire e cambiare la scena delle birre artigianali italiane. Attraversando il bancone, le spine sempre in funzione e tutta la marea di gente che ancora lo affolla, anche se non c’è più l’impianto a vista, è possibile riscoprire le sue tracce, a partire dalle birre storiche che continuano a risplendere nella tap list. La Ghisa, fra queste, è stata una delle prime a portare in Italia il gusto affumicato della Franconia e delle Rauch di Bamberga, per poi declinarle in una Stout che, negli anni, ha parlato sempre più la lingua del birrificio di Lambrate.

La genesi della Ghisa ripercorre un po’ la strada dei primi avventurieri, in cui trovare ricette, materie prime e strumenti è uno dei problemi principali, non essendoci un vero e proprio mercato – a partire dall’homebrewing e, figurarsi, per chi comincia a credere non solo nell’autoproduzione ma nella possibilità di creare direttamente un luogo e modi in cui consumare birre artigianali italiane: “Negli anni in cui abbiamo aperto”, ci spiega Fabio Brocca, mastro birraio e fondatore insieme a Giampaolo e Davide Sangiorgi del Birrificio Lambrate, “I pochi riferimenti che avevamo erano quelli della tradizione tedesca e belga. Andavamo spesso in Germania, sia per assaggiare la birra che per motivi diciamo tecnici a proposito di materie prime e impianti. Bamberga è sempre stata per noi un punto di riferimento e in quegli anni quando, appunto, non era facile trovare informazioni era necessario incontrare le persone, quasi porta a porta, e per comprendere e scoprire i passaggi produttivi in sostanza dovevi sbatterti. Siamo sempre stati proiettati su un modo di fare stili il più personalizzati possibile, diciamo freestyle, secondo la nostra interpretazione e, così, aver assaggiato le birre affumicate della Franconia, ci ha convinto a voler provare in quella direzione partendo, però, da una Stout. Negli anni, con la diffusione e l’allargamento del movimento artigianale, la maggiore facilità nel reperire gli ingredienti e il nostro miglioramento dal punto di vista delle conoscenze e degli strumenti l’abbiamo modificata e ammorbidita ma preservando la sua impronta tradizionale”.

Ci porta indietro a fine anni novanta, ci sembra un secolo fa perché adesso è tutto cambiato. Avevamo questo pub in mezzo al nulla di Lambrate che sembrava tutto un altro quartiere, le persone venivano come in pellegrinaggio all’Adelchi perché ancora non ci credevano che ci producessimo noi la birra finché non vedevano l’impianto.

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Credibilità alla luna – L’approdo di Spaceman nell’universo delle IPA italiane

Spaceman, BrewFist – West Coast IPA

L’ispirazione per la Spaceman arriva dalla percezione di un errore”, ci racconta Andrea Maiocchi, “Gli investimenti per il birrificio erano stati alti e non potevamo permetterci di sbagliare una seconda volta”. È la primavera 2011, e nell’universo delle birre artigianali BrewFist è attivo solo da qualche mese. Sul mercato sono uscite le sue prime quattro birre, ma la Burocracy, la prima IPA del birrificio lodigiano, non sembra soddisfare le esigenze del momento. Per questo motivo Andrea Maiocchi e Pietro Di Pilato scelgono di rimettersi subito in gioco e tornare in sala cottura, rimodulano rapidamente gli ingredienti, convergono sulla costa ovest degli USA, riscrivono il packaging.

All’epoca il mondo delle birre artigianali italiane era un contesto profondamente differente da oggi, per la maggiore andavano ancora le bottiglie da 75cl. Ci sembrava un formato indirizzato verso un target sbagliato o che, almeno, non fosse adatto a quello che stavamo cercando noi. Quando abbiamo deciso di fondare BrewFist l’obiettivo era quello di portare anche un cambiamento che potesse svecchiare questo immaginario e, così, ci siamo messi a studiare come poterlo fare, progettando quattro birre con cui uscire. La Burocracy era molto equilibrata e mentre la creavamo pensavamo fosse proprio sopra le righe. Quando è uscita ci siamo accorti presto che avevamo sbagliato, che non potesse essere effettivamente la nostra IPA di punta così, con Pietro, ci siamo detti ‘Ok, dobbiamo cambiare. Dobbiamo piantare la bandiera di BrewFist sulla luna’. A differenza delle altre quattro birre che avevamo costruito insieme nell’impianto di casa, passando anni per perfezionarle al millimetro, non avevamo tempo. Dovevamo andare subito in cotta e così Pietro è tornato su un’idea molto classica: cercare di compensare l’amarezza del luppolo con le note fruttate dei tre luppoli che aveva scelto”. [continua la lettura]

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L’immagine di copertina, le fotografie e i set sono a cura di Ginevra Romagnoli, che trovate qui

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