XYAUYù BALADIN
Ginevra Romagnoli x Beeer Mag. 2022 ©

Volevo superare i limiti: la Xyauyù di Baladin raccontata da Teo Musso

Ossidazione può essere una parola spiacevole. Ci porta alla mente un sapore ferroso e acetico, dagli estremi sanguinei come la patina rossastra di qualcosa che arrugginisce e si degrada. Per la birra vale lo stesso, segna la sua fine, un difetto di produzione, qualcosa che non è andato come doveva. Eppure è proprio l’ossidazione, questo processo chimico che prevede la perdita di elettroni da parte di una sostanza a favore di un’altra – generalmente l’ossigeno -, a permetterci di respirare. È, in questi termini, una forza generativa. Per Teo Musso è diventata una possibilità per spingersi oltre i limiti della birra stessa, di fare di un problema, una opportunità. Quella di Xyauyù è una sfida produttiva, che mette in discussione regole e indicazioni, ma è anche una sfida al gusto, alla struttura di ciò che siamo abituati a bere.

Nel 1996”, ricorda il fondatore di Baladin, “ho iniziato la produzione di birra, dopo dieci anni di gestione di un locale a Piozzo. Com’era successo nell’86, quando avevo aperto il pub, i miei genitori mi guardarono come se fossi pazzo. A Piozzo non si beveva la birra e già avevo aperto un locale specializzato, dieci anni dopo mi ero messo in testa pure di produrla. Mio padre, che non parlava quasi mai come i contadini di una volta, dopo aver perso le speranze, in modo provocatorio mi disse che il giorno in cui sarei riuscito a fare una birra più buona del vino mi avrebbe dato ragione. Lo stimolo della Xyauyù è nato da lì”.

La trasformazione definitiva di Baladin in brewpub non parte nel modo migliore e la quasi totalità dei clienti, di fedeltà decennale, non viene convinto dalle nuove birre e non torna più al locale. In questo momento drammatico Baladin si ritrova a produrre le sue prime birre (Blonde e Ambrée, poi Super e Brune) senza avere ancora un mercato, un aspetto in comune con i pionieri – vedi Birrificio Italiano e Lambrate. Musso decide allora di spingere in una direzione ancora più estrema, di credere nelle proprie idee e di accettare la sfida del padre per creare la base di quello che sarà Xyauyù: “Quando ho iniziato il percorso di produzione nel ‘96 nei primi due mesi ho perso quasi l’80% dei clienti del pub, per cui siamo arrivati sull’orlo del fallimento. Stuzzicato da mio padre in quella direzione, con il parecchio tempo che mi avanzava, ho deciso di fare quello che mi ha sempre guidato nella mia vita e, cioè, creare cose nuove. Ho sempre fatto fatica a bere vino oltre i 12-13 gradi o altre bevande particolarmente acide e, così, mi sono appassionato all’interpretazione inglese, che esaspera un difetto, quello dell’ossidazione, facendolo diventare una caratterizzazione molto piacevole, riassumibile in quello che oggi è Jerez, Madeira, Porto Soleras.. Il processo di esasperazione dell’ossidazione di questi vini, paradossalmente, va a creare un bilanciamento e una caratterizzazione aromatica veramente piacevole, così ho provato a capire come questo avrebbe potuto funzionare nella birra, e con quali risultati”.

Ho deciso di fare quello che mi ha sempre guidato nella mia vita, cioè creare cose nuove ma, soprattutto, provare a toccare un percorso legato al mondo del vino che, per me, per la mia storia e per come sono fatto, è sempre stata una parentesi molto faticosa

Il problema dell’ossidazione nella birra, che conferisce quel tipico sentore fiacco e metallico, è considerato ragionevolmente un errore in fase produttiva, che prevede l’ingresso e la riproduzione dell’ossigeno al suo interno, causando una perdita delle sue condizioni chimiche, gustative e fisiche. A differenza di quanto può accadere nel vino, l’ossidazione ha un impatto decuplicato nei processi chimici della birra tanto da essere misurata non in PPM (parti per milione) ma in PPB (parti per miliardo). A essere più colpiti sono gli aromi, che tendono a ridurre il proprio impatto, volgendo su sentori più forti e animaleschi, che il BJCP identifica come stantio, vinoso, di cartone o di sherry. Invece di limitare questo rischio, come si impegna a fare ogni produttore, Teo Musso decide di assecondarlo in maniera estrema, lasciando che sia proprio l’ossigeno, e il suo contatto con la birra, a guidare la sperimentazione, a entrare come protagonista nella lavorazione allo stesso livello di lieviti, malti e luppoli: “Parto con le sperimentazioni a partire da un concetto ben preciso. Nella mia testa la birra doveva risultare una sorta di vino d’orzo, pensato per convincere mio padre, e, quindi, doveva andare in una direzione che andasse a scombussolare tutta la sua struttura. Comincio così sette anni di messa a punto della tecnica, partendo dalla teoria enologica dei vini ossidati che prevede condizioni di grandi sbalzi di temperatura per estremizzare i processi di ossidazione. Metto allora 500 litri di Super, che allora facevo fatica a vendere, dentro una vasca nel cortile di mio padre e la lascio lì per un anno in balia delle stagioni, arrivando a temperature esasperate nel periodo estivo e invernale, questo per vedere che cosa succedeva esasperando il processo di ossidazione. Vado avanti, anno dopo anno, per mettere a punto la ricetta: il secondo anno metto la stessa quantità sotto il porticato, in modo da ridurre gli sbalzi termici che, nella prima edizione, avevano fatto evaporare quasi la totalità dell’alcol; nel ’99 isolo il ceppo di lievito della casa, poi capisco di aver bisogno di una struttura più corposa e concentro il mosto attraverso bolliture molto lunghe”.

 

XYAUYù BALADIN

 

L’imbottigliamento ufficiale della Xyauyù avviene ufficialmente nel 2004, dal blend delle prime tre annate di sperimentazione. La caratteristica più affascinante, come nota lo stesso Musso, è che naturalmente l’ossidazione inizia ad armonizzarsi e a creare nella birra delle sfumature dai tratti barricati e legnosi nonostante, di fatto, di legno e uva non ce ne sia effettivamente traccia né utilizzo. La birra qui si trasforma in qualcosa di altro, perde alcune sue caratteristiche tipiche come la frizzantezza e le rimpiazza con altra come la densità, spinge su toni balsamici e acetici pur mantenendo una traccia solida di malto: “Mio padre rimase esterrefatto dal risultato e, nella parte finale della sua vita, la Xyauyù era diventata la sua bevanda da fine pasto invernale. I risultati delle prime produzioni furono abbastanza incredibili, si arrivava a sentire il legno grazie alla forza ossidativa del malto e produceva note simili alla salsa di soia, si percepivano delle sensazioni che si avvicinavano a quelle dell’uva passata in legno. Nel 2005 a un evento a cui ero stato invitato, portai per la prima volta in abbinamento a un dolce la Xyauyù che, ancora, non era prodotta pensando alla vendita. Il responso fu talmente forte che decisi di metterla definitivamente in linea, rinominandola Xyauyù su ‘imposizione’ di mia figlia. Nel frattempo, ho continuato la produzione senza l’utilizzo del legno, passandola sempre e solo in acciaio. Con la creazione di Cantina Baladin nel 2010, quando la produzione principale si spostò nell’impianto più grande, ho deciso di provare un affinamento in legno e da lì in avanti sono nate altre variazioni. Dalle iniziali 3 varianti basate sull’ossidazione – oro, argento e rame – siamo arrivati a selezionarne, ad oggi, 5. Una parte della produzione della versione oro, la base di tutte le varianti, viene affinata in botti di rhum (Xyauyù Barrel), di whisky delle Islay (Xyauyù Fumè), con foglie di tabacco Kentucky (Xyauyù Kentucky) normalmente utilizzate per la produzione del sigaro toscano che lavo a vapore per togliere la parte tossica e lascio in macerazione per due anni nelle botti, e la Kioke con note resinose derivate dalla botte giapponese, utilizzata per la produzione di salsa di soia artigianale, in cui matura. Rimango, per queste serie speciali, su piccolissime quantità, quindi non più di 1500 bottiglie per tipologia l’anno”.

Armonizzando quello che è considerato decadimento, Xyauyù rompe la convenzionalità e apre scenari nuovi – difficili, estremi -, per differenti tipi di bevuta. Paradossalmente viene riconsiderata anche l’identità stessa della birra, partendo da una sfida – sentimentale, di orgoglio, di ricerca – fra un artigiano e i propri limiti: “La Xyauyù è sicuramente un prodotto di rottura, riguarda una esperienza su ciò che è il prodotto birra, quello che oggi immaginiamo o che definiamo con questa parola, tutto partendo da quello che è da sempre considerato un suo difetto. Penso che abbia lasciato la voglia di sperimentare, la voglia di andare oltre i limiti perché, come detto, partendo dal punto più sbagliato arriva a un risultato che alla fine continua, a distanza di 25 anni, ad avere un effetto di sorpresa. Direi che sicuramente ha dato tanto in questa direzione e non necessariamente creando un filone vero e proprio, ma rompendo quelle che sono le frontiere fra cosa si può e non si può fare”.

 

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L’immagine di copertina, le fotografie e i set sono a cura di Ginevra Romagnoli, che trovate qui

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