papa nero ritual lab giovanni faenza
Ginevra Romagnoli x Beeer Mag. 2022 ©

Riscoprire la densità: il sabba di malto della Papa Nero raccontato da Giovanni Faenza di Ritual Lab

A metà degli anni ‘10, il movimento delle birre artigianali italiane è ampiamente uscito dagli anni di gestazione e si sta sviluppando rapidamente in micro scene regionali che si affiancano alle realtà storiche del nord. La scena romana è fra le più attive e più interessanti che, spinta da luoghi iconici come l’Off License e il Ma che siete venuti a fa’, comincia a mostrarsi non solo come un crocevia di esperienza ma una vera e propria fucina di nuovi produttori. Il lavoro di Giovanni Faenza e di tutto il progetto Ritual Lab, va forse analizzato in questo modo, nella capacità di imporsi sulla scena nazionale attraverso un approccio tradizionale– con varie frequentazioni nel luppolo americano – per poi, quasi dieci anni dopo, aprire un nuovo capitolo a partire da una proporzione di acqua e malto surreale che, come in un sabba birrario, dà alla luce la Papa Nero destinata a riscrivere le regole in fatto di birre scure italiane e riconfigurare la strada del birrificio stesso.

Per ottenere quello che volevamo dovevamo andare contro alcune delle basi del produrre birra, in modo convenzionale, correre il rischio che un impasto così importante potesse creare seri problemi all’impianto produttivo.

L’idea di ripartire dai malti e produrre una nuova birra scura nasce da lunghe sessioni al bancone e da un incontro, quello con Vodoo Brewery e il suo birraio Curt Rachocki, che avvicina Giovanni Faenza a un nuovo modo estremo di concepire i rapporti sulle quantità degli ingredienti, ma anche alla possibilità di utilizzare gli strumenti oltre i loro limiti tecnici: “La Papa Nero nasce dal mio amore per le Imperial Stout e dal fascino di poter creare un prodotto che potesse migliorare nel tempo. Era un modo di concepire la produzione che, al tempo, mancava nella nostra realtà da sempre specializzata su stili tedeschi e americani in cui è la freschezza a fare la differenza. La collaborazione con Vodoo Brewing ci ha praticamente iniziato alla produzione di quelle che vengono chiamate big beers, che necessitano di metodi produttivi che sono totalmente diversi da quelli convenzionali, anche dal punto di vista tecnico, in cui gli impianti vengono modificati e utilizzati quasi in maniera impropria per supportare questa produzione”.

Cercare la densità, senza ricorrere all’intervento di lieviti lattici, spinge Giovanni Faenza a ripercorrere le radici della struttura della Stout, analizzare la combinazione dei malti – anche in direzione del gusto – e ripensarne le proporzioni, spingersi anche contro tutta una serie di accortezze e, perfino, manuali di istruzioni: “Per ottenere quello che volevamo dovevamo andare contro alcune delle basi del produrre birra, correre il rischio che un impasto così importante – 2.2 chili di malto per litro – potesse creare diversi problemi durante tutta la fase di creazione del mosto. È una cotta che va osservata dall’inizio alla fine, partendo da una lunga macinatura alla mattina , passando per una lenta e difficoltosa filtrazione, per finire con una lunghissima bollitura. Diciamo che il rischio che qualcosa vada storto è molto alto”.

 

papa nero ritual lab giovanni faenza

 

Conto dei rischi fatto, infinite mail scambiate, modifiche alla ricetta, proporzioni cambiate, i santi votati e i papi nominati, il momento della verità arriva verso la fine del 2019, quando finalmente Ritual Lab e Vodoo Brewery si incontrano nell’impianto di Formello per la sfida della prima cotta: “Il giorno che abbiamo fatto la prima cotta con Shawn Strickland lui ha assaggiato il mosto, mi ha guardato e mi ha detto che era il mosto più buono che avesse mai provato, ci disse di essere sicuro che la birra sarebbe stata una bomba e che, da quel giorno, non saremmo tornati più indietro. Non si era sbagliato di molto. Collaborare insieme, fidarsi di alcune loro idee su come utilizzare al meglio l’impianto e come direzionare la ricetta, ci ha aperto un mondo e, con la riuscita di quella prima cotta, ci ha dato il coraggio di continuare a sperimentare partendo proprio dalla Papa Nero. Da lì abbiamo cominciato a variare i malti, abbiamo cominciato a fare dei passaggi in botte, ne abbiamo fatte più di 50/60 batch diversi. La Papa Nero è stata un po’ l’apripista ed è diventata il simbolo del birrificio anche se è uscita paradossalmente 3 anni fa”.

Il ragionamento di Giovanni Faenza si concentra allora sui suoi miglioramenti, diretti a una stabilizzazione della ricetta e dei passaggi: “Cotta dopo cotta abbiamo analizzato e risolto i punti critici, abbiamo perfezionato il metodo di filtrazione, la macinatura, fino a raggiungere un protocollo che permettesse alla birra di essere costante. Ci sono volute diverse cotte per arrivare dove siamo. Con una birra del genere devi essere molto delicato e questo implica filtrazioni lente, conoscere e capire come gestire al meglio tutta l’attrezzatura. La durata della bollitura dipende direttamente da questi passaggi, se serviranno due o quattro ore per raggiungere i gradi Plato necessari. Anche oggi, anche dopo aver preso confidenza con la ricetta, non è mai una giornata tipo, non è come fare le altre birre in cui sono nella mia comfort zone, bisogna sempre seguirla con massima attenzione fino all’ultimo passaggio”.

 

La Papa Nero a mio avviso ha aiutato a osare e rivalutare la concezione dello stile stesso in Italia, a ripensare un certo modo di approcciarsi a particolari versioni di Stout e POrter sia dal punto di vista del produttore che del consumatore. Le big beers, a mio avviso, possono essere il passo per entrare in alcuni ‘tavoli’ importanti che spesso escludono la birra. 

 

Dopo una lunga bollitura, la Papa Nero viene raffreddata e passata nel tank dove a seguitò di un periodo di fermentazione e maturazione sarà destinata o alla bottiglia (Papa Nero tradizionale) o alla maturazione in botte. Di quella prima cotta, infatti, una parte irrompe sulla scena rompendo gli argini della densità, mentre un’altra finisce dritta in botte per un periodo fra i 12 e 24 mesi, prima di andare a realizzare le derivazioni della Papa Nero (Bourbon, Maple Syrup, Cognac, Rum) attraverso un complicato blend fra botti diverse: “Lavorare di blend è un’altra sfida, anche la reperibilità delle botti stesse è particolare ed è importante quanto trovare un luppolo o un malto di qualità, questo perché anche le botti vanno considerate come delle materie prime a tutti gli effetti. È la parte più divertente del nostro lavoro. Cerchiamo di ottenere un carattere costante blendando per ogni lotto le botti fra loro e attraverso degustazioni interne rigorosamente alla ceca cerchiamo di avvicinarci a quello che deve essere per noi il risultato ideale per questo prodotto. Quando vai ad assaggiare, dopo uno o due anni, capisci qual è la direzione da prendere, e proprio in questo momento si esprime il birraio nelle vesti di blender, in cui il palato e l’esperienza fanno la differenza. È qualcosa di creativo e sempre nuovo che ci allontana anche dalla monotonia della produzione”.

La scelta di non ottenere la densità attraverso l’aggiunta di lattosio o altri zuccheri complessi, introduce una complicazione a livello concettuale, legata al malto, alla quantità necessaria per ottenere il corpo voluminoso e pesante che la Papa Nero vuole presentare, ma anche su come la combinazione dei diversi malti presenti nel grist, vadano calibrati per ottenere il gusto ricercato: “Cercavamo una birra nera scura che non fosse stucchevole o potesse sembrare ‘artificiale’ ma che, allo, stesso tempo avesse un corpo molto importante. L’obiettivo finale era quello di creare una birra cremosa, alcolica e molto complessa ma allo stesso tempo non difficile da bere. Per ottenerlo abbiamo pensato a un mash e a una quantità di malti esagerate per usare meno zuccheri aggiunti possibili. Questo ha imposto una scelta accurata dei malti che compongono la ricetta, diversi tipologie caratterizzano il grist a partire dal Pale, i malti caramello, il Brown, fino alla scelta dei malti neri, che sono l’aspetto fondamentale. Abbiamo puntato su granì neri dai sentori ‘morbidi’, come il frumento torrefatto, il Chocolate belga o comunque malti che potessero limitare le astringenze. L’uso di un’acqua molto dura ci aiuta a mantenere un PH alto che è fondamentale per dare una buona rotondità e contrastare le tanto temuta acidità tipica dei malti scuri. Tendenzialmente si cerca con questa scelta dei malti di tirare fuori dalla ricetta meno sentori di liquirizia o caffè, per spingere su toni più vicini alla cioccolata fondente, al caramello e a sensazioni ‘morbide’”.

La rivalutazione del concetto di ‘densità’, ma anche di Stout, portato dalla Papa Nero va verso una direzione ben precisa. Sfidando i limiti tecnici e gustativi, imponendo una cottura e un corpo così importante, va a ridefinire anche i rapporti di forza e di degustazione della birra stessa, non più la working class beer ma una birra da meditazione, da dopo cena, che punta diretta a entrare nei luoghi e nelle case da cui è spesso esclusa: “La birra può assolutamente accostarsi al mondo del vino, ha talmente tante sfumature che permette uno spettro ampissimo di abbinamento. La Papa Nero a mio avviso ha aiutato a osare e rivalutare la concezione dello stile stesso in Italia, a ripensare un certo modo di approcciarsi a particolari versioni di Stout e POrter sia dal punto di vista del produttore che del consumatore. Le big beers, a mio avviso, possono essere il passo per entrare in alcuni ‘tavoli’ importanti che spesso escludono la birra. È, ovviamente, un prodotto che va servito in piccole quantità, che va visto alla pari di un vino liquoroso o un passito e, spesso e volentieri, lo supera in fatto di gusto e complessità”.

Puoi acquistare la Papa Nero di Ritual Lab qui

Le birre artigianali che hanno fatto la storia del movimento italiano, raccontate dai loro creatori, le puoi stappare qui

 

L’immagine di copertina, le fotografie e i set sono a cura di Ginevra Romagnoli, che trovate qui

Riproduzione vietata senza consenso.

Seguici su Instagram