Nella vita di un bevitore la curiosità è praticamente tutto. È sicuramente quello stimolo continuo che ti porta a sperimentare e a ricercare in ogni direzione nuovi gusti ma è, anche, una sorta meccanismo di difesa integrato. Se si dice educare il gusto è probabilmente perché sottintende il costante esercizio pratico attraverso cui distinguere quello che ci piace rispetto a quello che è più o meno buono. La pratica, dicevamo, è fondamentale e la curiosità va allenata costantemente. Per questo, quando ci sono arrivati all’occhio questi hard seltzer, abbiamo deciso di scoprire la storia dietro al loro successo mondiale e provare le prime interpretazioni realizzate dai birrifici italiani per capire se questa sarà, finalmente, la loro estate.
Per capire di cosa parliamo quando parliamo di hard seltzer ci riferiamo a una bevanda a base di acqua frizzante fermentata, il cui tasso alcolico viene ottenuto attraverso la fermentazione di zucchero di canna o di malto (da qui il legame con la birra e lo sviluppo da parte dei birrifici), a cui vengono aggiunte spezie e frutta in essenza o in purea. Una (non-)birra tecnicamente low carb, che sviluppa un tenore alcolico basso e un forte sapore fruttato e floreale. Sono questi i motivi per cui gli hard seltzer piacciono così tanto, nonostante tutti i dubbi che si possono nutrire attorno alla concezione di questa acqua frizzante alcolica, consolatevi col fatto di aver trovato finalmente una risposta adeguata all’amico che ogni volta ci ricorda che l’acqua si usa solo per le piante e/o l’acqua fa la ruggine quando vi accusa di bere poco. È quindi una questione di ricerca quella che ci ispira per capire se il miracolo à la Giovanni 2,1 -11 sia avvenuto davvero e quali siano i termini in cui tutto questo sta accadendo.
Gli hard seltzer, nonostante la loro esplosione si registri negli ultimi anni negli Stati Uniti (sì, tra tutti i posti proprio lì), hanno un’origine a metà tra il serio e il leggendario. Si ispirano molto probabilmente al sima, una tradizionale bevanda finlandese ottenuta tramite la fermentazione di miele e acqua, ma la data di nascita ufficiale viene indicata negli anni ’90, inaugurando il periodo d’oro degli alcopop (la prima rovinata da Bacardi Breezer vi dice nulla?), quando Duncan MacGillivray, mastro birraio australiano, crea la prima limonata alcolica al mondo. Questa Two Dogs, oggi proprietà Kirin, comincia a girare il mondo senza davvero impressionare nessuno e, per un po’ di tempo, scompare dai radar fino al 2013 quando Nick Shields decide di rinnovare la ricetta e sviluppare Spiked Seltzer. In poco meno di un anno la hard seltzer mania conquista tutti gli Stati Uniti arrivando oggi ad avere un mercato oltre i 4 miliardi di dollari, de botto, senza senso.
In questo grande bollitore d’acqua e zucchero non finiscono solo i big three, con Bud, Corona e Coors seltzerate con colori sgargianti, ma si sviluppa anche un movimento indipendente in grado di creare un colosso come White Claw, re indiscusso oggi in questa categoria, e nuove continue interpretazioni del genere.
Gli hard seltzer in Italia
Non è facile trovare gli hard seltzer in Italia, soprattutto perché difficilmente vengono importati non avendo ancora un mercato. Questo però non ha scoraggiato i nostri birrifici artigianali che si sono lanciati a gamba tesa per dare la propria interpretazione e, nonostante la scelta limitata, possiamo contare già su qualche produzione interessante a opera di Toccalmatto, Birrificio Pontino, Billi Hard Seltzer e, l’ultimo arrivato, Wati,
L’esperienza con ognuna di queste creazioni diaboliche è surreale. Diaboliche perché è in sostanza acqua con bollicine e megaflavored. Surreale perché si tratta pur sempre di acqua ma a un certo punto l’alcol si fa sentire. Non dal punto di vista del sapore, totalmente dominato dai mix tropicali che vengono aggiunti, volando fra dragon fruit, yuzu, poi mango, zenzero, ananas e via andare, ma nell’effetto finale. La bevuta, del resto, è quella degli alcopop, questa miscela di freschezza traditrice che in una giornata di caldo, con la giusta dose di ghiaccio e frutta fresca, sono come un’oasi nel deserto.
Non dovrete aspettarvi, ovviamente parliamo di acqua, una corposità densa o consistente, ma è tutto un gioco di scorrevolezza. Fra quelli che abbiamo provato sono sicuramente i Billi quelli più consistenti nella bevuta, dono probabilmente dell’aggiunta minima di luppolo, che si sviluppa anche nel retrogrusto finale. La leggerezza e freschezza è sicuramente uno dei pregi di Wati, la più giovane linea fra gli hard seltzer italiani, sviluppata e prodotta da Baladin (nonostante sia a tutti gli effetti un side project) in cui la scelta in controtendenza per i gusti, a base di fieno, mela verde e arancia rossa, li rende anche i più interessanti e godibili, più vicini ai gusti continentali rispetto alle secchiate di frutta tropicale degli altri.
Il tocco produttivo tocca, però, alla Strong Water di Birrificio Pontino, in cui la produzione sembra più beer-oriented in cui spiccano maggiormente i lieviti che si bilanciano con dragon fruit e ananas. In modo molto simile anche la linea 28 di Toccalmatto hanno bisogno secondo noi di un supporto, con l’occasione di potersi esprimere ancora di più come base di un coctkail o per una granita a sorpresa in stile americano. Per la juicitudine sentire Billi, la cui potenza di fuoco tropicale va, anche in questo caso, mediata con ghiaccio e altre spezie.
Sarà quindi questa l’estate degli hard seltzer italiani? Saranno rivoluzionari come negli Stati Uniti? Cambieranno il modo di bere? Temiamo di no, ma temiamo anche che una volta scoperti qualcuno potrebbe abiurare e decidere di dedicarsi a queste acque muscolose in cambio di poche calorie e freschezza che, poi, non è neanche tanto male.
Tutti gli hard seltzer che abbiamo provato li trovate qui:
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