Qual è il primo gusto che ricordiamo? E in che modo questo si lega alla nostra storia, cosa racconta di noi, come ha influito sulle nostre esperienze, si chiedeva Anthony Bourdain ricordando l’infanzia in Kitchen Confidential. In qualche modo i profumi e i gusti a cui siamo più legati sono quelli, sottolineava il cuoco americano, che parlano di casa. Nel caso di Nicola Perra e la BB10 riguarda le lunghissime cotte preparate nei pentoloni, il territorio, un frutto – i frutti – della terra sarda, in particolare i vitigni e le uve che custodiscono l’isola del Mediterraneo da millenni: “Fino al 2005 la mia famiglia ha storicamente avuto dei vigneti, alla fine della vendemmia raccoglievamo i grappoli rimasti, si faceva una pigiatura veloce e poi si metteva a bollire il mosto, scremandolo e ripulendolo. Era una cottura lenta e continua, che durava anche venti ore da cui si otteneva la sapa, il mosto cotto d’uva, che poi mia madre utilizzava per preparare il pan di sapa o i papassini, che fanno parte delle tradizioni dolciarie del cagliaritano e di tutta la Sardegna, con nomi e uve diverse. La particolarità di questo mosto cotto è che può essere conservato anche per anni senza nessun conservante perché, essendo un trattamento termico prolungato, la sua concentrazione zuccherina è molto elevata – stiamo parlando di un rapporto 1 a 5 rispetto al mosto iniziale – e si riduce fino a un quinto diventando bello denso e permettendogli di conservarsi nel tempo. Mentre sperimentavo alcune birre da homebrewer ho pensato che questo potesse essere un materiale fermentabile interessante per fare una birra”.
Da lì ho capito che il vitigno poteva andare d’accordo con la ricetta di malti, luppoli, lieviti ma, perché avesse un senso, dovevo cucirgli addosso un abito che potesse dargli ancora più forza.
Da quelle prime prove, realizzate con l’aggiunta diretta di un primo mosto di uva bianca agli ingredienti necessari per una Imperial Stout, Nicola Perra fa nascere la BB10, la Grape Ale originale. Quello del birrificio Barley è un percorso che, inevitabilmente, ha dei tratti pionieristici, scrivendo un capitolo nuovo nell’uso della frutta, ma attraversa lo studio e la pratica artigiana, alla ricerca di una sfumatura ben precisa che, successivamente troverà compimento nel Cannonau, il vitigno forte e risonante tipico della Sardegna: «Non ho usato da subito il Cannonau, ci sono arrivato per gradi perché non essendoci una bibliografia in merito da nessuna parte ho dovuto fare da me, portando avanti più che altro un approccio empirico a queste sperimentazioni. Sono partito con delle uve bianche, se non ricordo male c’era il Nasco, il Trebbiano, il Nuragus, che ho messo in una ricetta base di Imperial Stout da dieci gradi, facendola poi affinare in bottiglia per dieci mesi. Notavo che c’era una certa evoluzione ma che c’era qualcosa di più che si poteva fare, così ho provato con il Cannonau. Feci una cotta in casa con la stessa modalità che avevo già sperimentato e notai che effettivamente la birra aveva una marcia in più. Da lì ho capito che il vitigno poteva andare d’accordo con una ricetta di malti, luppoli, lieviti ma, perché avesse un senso, dovevo cucirgli addosso un abito che potesse dargli ancora più forza».
L’innovazione portata dalla BB10, però, non si limita soltanto a un processo che dalla tradizione sarda si sviluppa in tecnica birraria, ma riguarda anche la ridefinizione dell’utilizzo dell’uva. Differentemente da alcuni produttori che utilizzano l’uva come partner della fermentazione spontanea, il lavoro di Perra si dirige verso il vitigno scelto, attraverso lieviti selezionati che possano esaltare la componente aromatica, come ci racconta, perché il gusto venga indossato al meglio. Il risultato porta a una bevuta precisa, in cui alle note maltate tipiche delle Stout, fa capolino la forza del Cannonau, che si adagia, dà morbidezza e consistenza: «Con la nascita della BB9 ho capito che, per arricchire la birra con l‘uva, era necessario costruire una ricetta a partire dall’uvaggio e di tutte le sue sfumature. Nel caso della BB9, partendo dalla Malvasia di Bosa, si parlava di pesca, albicocca e mandorla che sono proprio i suoi sentori tipici. Questo mi ha portato col tempo a voler sperimentare e a voler scoprire sempre di più le possibili evoluzioni che avrebbero potuto portare l’aggiunta di tipi diversi di uva».
L’impatto della BB10, e di uno stile come quello della Grape Ale, non è immediato. Questo perché, nonostante il bilanciamento, le birre di Nicola Perra introducono un gusto inedito, che travalica in qualche modo i confini di un genere per invadere un territorio apparentemente intoccabile e sacro come quello del vino nel nostro paese. Pensare, tuttavia, alla linea BB di Barley come a un possibile ibrido fra birra e vino, o come trait d’union fra i due, rischia di non far comprendere ciò di cui si parla e, inevitabilmente, si beve.
Come accade con altri tipi di materie prime sfruttate per donare zuccheri, corposità o gusti diversi, la vera intuizione di Perra è stata proprio quella di costruire una birra (il suo stile, il suo procedimento) intorno a un’idea – forse un ricordo, certamente una tradizione e un territorio – e dargli una forma ben precisa. Non vinosità, quindi, ma una forte struttura e identità peculiare: “Quello che cercavo non era trovare un punto di contatto fra vino e birra, ma proprio fra l’uva, come ingrediente fermentabile, e la birra. Utilizzo l’uva come frutto e, pensando anche come questo frutto viene trasformato in vino, posso trarne determinate caratteristiche. Faccio una birra per far sentire l’uva, certo, ma rimane sempre una birra. Pensavo che questo materiale fermentabile potesse essere qualcosa di interessante per arricchire la birra e poi ho continuato a sperimentare e sperimentare e studiare le interazioni dei lieviti. Si tratta di un prodotto unico perché le variabili sono tante, a partire dagli ingredienti, da come si utilizzano, e poi dalle tecniche di birrificazione. Parliamo di prodotti che partono prima di tutto dalla terra, da un terroir preciso che scelgo. È un progetto che parte dalla vendemmia, che dipende da precise tecniche di raccolta, utilizzo e, anche, immagazzinamento. Sono tutte azioni necessarie per preservare il più possibile l’identità, i luoghi da cui provengono le uve, le loro caratteristiche. La BB10 è un unicuum non solo perché è stata la prima ricetta ma per le sue caratteristiche particolari che non sono rintracciabili in altri luoghi. Il suo gusto riconoscibile rappresenta la sua unicità. La linea BB è una linea che si caratterizza a partire dall’uva, con lavorazioni, vitigni e modalità diverse. È stato un messaggio che è stato accolto con curiosità, credo, perché ognuna di queste birre ha la sua dignità, ognuna parla in maniera univoca e ti dà dimensioni diverse ma rimane sempre una birra con la schiuma, il suo amaricate finale e così via”.
Ormai è la birra che mi dice quando è pronta, sono io che devo concentrarmi sul suo profilo, se la so leggere è perché ci conosciamo, la sua evoluzione parla molto chiaro e così l’idea su come deve uscire, quali caratteristiche deve avere per avere la sua identità.
Sono questi, fra i tanti, i motivi per cui, grazie alla BB10 e quelle che verranno in seguito, la Grape Ale comincia a diffondersi in Italia, con sempre più birrifici a sperimentare l’utilizzo delle uve locali. Un passo determinante, per la definitiva consacrazione dello stile, è l’inserimento da parte del BJCP all’interno della guida degli stili internazionali, lanciando – di fatto – le sperimentazioni di Perra in tutto l’universo birraio: “Con la proposta di inserimento dello stile IGA all’interno del BJCP nel 2015 e, poi, la definitiva stesura nel 2019 si è avuta un’evoluzione molto veloce. Ricordo che nel 2015 non c’erano neanche 60 Grape Ale in Italia, mentre adesso parliamo di almeno 80 birrifici diversi che ne producono una propria. Si è creato una sorta di micromovimento attorno a questa procedura birraria, che io preferisco definire Italian Style birrario piuttosto che categoria. La cosa molto interessante è che questo si sia avvertito anche all’estero e comincino a farle anche negli USA, con mosti d’uva californiani, che ci provino dei thailandesi, cinesi, giapponesi.. Abbiamo qualcosa che ci identifica, e mi fa molto piacere ovviamente, ma quello a cui punto è che diventino classici un po’ come i vini, che non passino”.
In pochi anni i calderoni e le cotte casalinghe si spostano in birrificio, dove Nicola Perra continua nelle sperimentazioni. Scopre come l’impatto e la co-lavorazione fra lieviti di birra e vino aggiungono una dimensione ulteriore (“La BB10”, racconta, “continua a essere quella della ricetta di allora, l’unica differenza è che negli ultimi 7-8 anni ho iniziato ad aggiungere ai lieviti di birra anche quelli del vino, perché aiuta a fare emergere ancora di più le caratteristiche dell’uvaggio utilizzato. I risultati sono molto interessanti anche perché i lieviti da vino si concentrano molto di più sull’evoluzione del fruttosio dell’uva e agevolano l’emissione delle sue caratteristiche e la resistenza stessa del prodotto finale birra in termini di lotta all’ ossidazione”), lavora su nuovi vitigni originali sardi, li macera, sperimenta il mosto fresco, lo affina dal tank alla bottiglia arrivando a una profonda conoscenza reciproca e una sorta di simbiosi fra artigiano e materia che si conclude, ancora una volta, sulla ricerca di una connessione ben salda alla terra: “Non mi sono mai fermato, anche se sento che c’è un minimo margine di miglioramento cerco di capire come raggiungerlo. Anche con l’ultima BB10 mi sono ritrovato a quel punto, ormai è la birra che mi dice quando è pronta, sono io che devo concentrarmi sul suo profilo. Se la so leggere è perché ci conosciamo, la sua evoluzione parla molto chiaro e così l’idea su come deve uscire, quali caratteristiche deve avere per avere la sua identità. Credo fosse inevitabile, prima o poi, che questo tipo di produzione saltasse fuori, perché abbiamo vigne dappertutto in Italia e l’uva è una delle cose che ci caratterizza di più. Il Mediterraneo è una miniera d’oro in fatto di biodiversità, le possibilità sono quasi infinite. Parliamo di storia, di vitigni autoctoni di tremila, cinquemila anni, c’è una biodiversità mediterranea unica al mondo che tutto il mondo ci può solo invidiare e noi dobbiamo essere bravi a comunicarlo. Siamo già in grado di farlo con il vino e dobbiamo essere pronti a farlo con la birra. Per questo ho sempre creduto che fosse necessario insistere sulla riconoscibilità della birra attraverso il vitigno usato. Se tu riesci a trasmettere le caratteristiche del vitigno vuol dire che stai comunicando una componente unica. È lì si che si vede la mano del birraio, in cui la birra diventa l’estensione dell’artigiano. L’uva si può essere un alleato dal punto di vista di questa sua espressione.”
Puoi acquistare la BB10 del Birrificio Barley qui
Le birre artigianali che hanno fatto la storia del movimento italiano, raccontate dai loro creatori, le puoi stappare qui
L’immagine di copertina, le fotografie e i set sono a cura di Ginevra Romagnoli, che trovate qui
Riproduzione vietata senza consenso.
Seguici su Instagram