birra cambiamento climatico
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Gli effetti del clima potrebbero cambiare per sempre il gusto della birra (e non solo)

Il buon cibo, il buon bere, le cose buone in generale sono da sempre frutto di un percorso che riguarda l’evoluzione stessa delle cose. C’entrano certamente i sentimenti e i ricordi, la capacità di non darsi un limite e quella di godere, ma sono soprattutto le evoluzioni e le scoperte che rendono buono quello mangiamo e beviamo. È sempre un oscillare fra un istinto e una somma infinite di conoscenze. Se apriamo il frigorifero e troviamo un particolare tipo di carne è perché in migliaia di anni, dalla storia del primo allevamento, l’uomo ha cominciato a studiare e trasformare, a disegnare i tagli e a sperimentare i metodi di cottura che vi guardate in tv e vi parlano al più profondo degli appetiti. Magari domani aprirete una macelleria, magari farete gli allevatori o smetterete di consumarla, ogni piccola azione seguirà comunque la somma di qualcosa iniziato prima. Con la birra è stato lo stesso.

Da un secchio d’orzo mescolato a dell’acqua in Mesopotamia, via via, la birra si è evoluta e ha cominciato ad accumulare esperienze. Sperimentando ha cominciato a cambiare, ha scoperto il luppolo prima come conservante e poi l’ha trasformato nella componente essenziale del gusto che conosciamo oggi. Ha alimentato i lieviti e ha imparato ad addomesticarne la natura selvaggia, ha unito frutta ed erbe. Se oggi vi bevete una IPA e vi sentite a chilometri di distanza è perché secoli fa ha attraversato i peggiori porti sulle coste degli oceani e poi è arrivata negli Stati Uniti, perché ha sapientemente mescolato l’inflessibilità tedesca e la sacralità dei monasteri belgi, ha inglobato nuovi sapori, ha cambiato colore e moltiplicato i profumi.

La storia della birra racconta di un cambiamento costante, in cui la tecnica ha supportato e solleticato la fantasia di generazioni. Per la prima volta nella sua storia questo percorso si ritrova a un punto di non ritorno, in cui non si tratta di migliorare ma di sopravvivere al cambiamento climatico che potrebbe distruggerla. Questa condanna ha un precisa data di scadenza che, mentre scriviamo, conta 6 anni, 254 giorni, 14 ore e una manciata fra minuti e secondi inesorabilmente destinati a scendere. La birra è certamente l’ultima nella lista nera delle terribili conseguenze del riscaldamento globale ma è un mezzo utile per comprenderlo e continuare a combatterlo perché, alla fine di tutto, se non ci sarà nulla con cui brindare, è perché sarà già troppo tardi.

La birra è terra e la terra è in fiamme

 

Proprio lì, alla base della nostra cultura avvengono le devastazioni peggiori. Incendi, siccità, gelate e locuste sono gli ingredienti di questa apocalisse annunciata sotto gli occhi di tutti. Stando all’ultimo rapporto FAO, l’incidenza annuale delle calamità nel settore agricolo è triplicata rispetto agli anni ’70 e ’80, con una perdita di intere coltivazioni in tutto il mondo. Gli stravolgimenti meteorologici hanno conseguenze dirette sulle produzioni agricole e, inevitabilmente, sulle materie prime della birra. Una ricerca del 2018 apparsa su Nature mostra come i cambiamenti di temperatura e piovosità abbiano un rapporto diretto sulla biochimica dei luppoli che, proprio per queste anomalie climatiche, non riescono a sviluppare il loro classico profilo aromatico.

Come tutti i prodotti agricoli anche il luppolo dipende in maniera determinante dal suo terroir, tema caro all’enologia ma che bene illustra questa combinazione fatta di suolo, clima e attacchi di insetti che la pianta subisce e caratterizzano il suo sapore. Le piante (e quindi anche l’orzo) dipendono completamente dall’ambiente che le circonda e, come una macchina perfetta, sono programmate per rispondere agli input del mondo circostante. Il cambio della temperatura, con caldi improvvisi e conseguenti gelate, spingono le piante di luppolo ad anticipare il processo di fioritura che, con il freddo, le porta a morire o a perdere gran parte delle loro caratteristiche nutritive e gustative.

Il cambiamento delle temperature influisce sulla quantità di luppolo, orzo e grano che possiamo coltivare. La temperatura influisce anche sul profilo aromatico di questi ingredienti. Pertanto un cambiamento di temperatura può alterare sia il costo che i gusti del prodotto finale della birra. Ma gli effetti del calore sono complicati. Non è solo quanto cambia la temperatura, ma quando quel cambiamento accade. Una giornata più calda può danneggiare gravemente una pianta giovane e tenera o una pianta nella fase riproduttiva quando i tessuti dei fiori sensibili al calore si stanno sviluppando. (C. Doherty, Climate Change Will Make Beer Taste Different)

Agire ora, bere domani

 

Il mondo della birra, probabilmente per queste conseguenze sulle colture, si sta mobilitando da tempo, marcando anche un’eccezione in un mondo che non sembra interessato al cambiamento. Esperienze come quella di BrewDog, il cui impegno per la decarbonizzazione si sta facendo sempre più determinato e potente, servono da insegnamento. I punk scozzesi hanno avviato una serie di iniziative destinate alla trasformazione del loro impianto produttivo, non solo in termini di compensazione delle emissioni, la cui efficacia è legata al breve termine, ma con una completa ricalibrazione dei processi produttivi, logistici e distributivi per diventare una azienda totalmente carbon negative: in poco tempo hanno investito 50 milioni di sterline per ridurre l’impatto ambientale, raccogliendo fondi e facendo della birra un’arma per combattere il riscaldamento globale. Questo impegno si è poi concretizzato nella Lost Forest, un enorme pezzo di terra nelle Highlands scozzesi, grande come 17 paesi, in cui BrewDog si impegna a creare un bosco in grado di estrarre 1 milione di tonnellate di anidride carbonica all’anno.

 

Per lanciare la propria campagna di sensibilizzazione contro il riscaldamento globale Fat Tire, il side-project di New Belgium Brewing Company di proprietà del colosso Kirin, ha prodotto la prima birra del futuro. Di un futuro negativo. Utilizzando solo elementi di scarto la Torched Earth vuole essere cattiva per mostrare la posta in gioco. A partire dai malti affumicati «per imitare l’impatto degli incendi sull’approvvigionamento idrico» vengono combinati cereali resistenti alla siccità come il miglio e il grano saraceno. Al posto dei luppoli New Belgium ha optato per i denti di leone e un estratto di luppolo di bassa qualità. L’anno scorso, Fat Tire è diventata la prima birra americana certificata a emissioni zero, convertendo la propria linea di produzione e lanciando un appello ai Fortune 500, le più grandi aziende al mondo, per convertire le proprie produzioni.

L’azione aggressiva per aiutare a risolvere la crisi climatica non è solo un imperativo ambientale e sociale urgente, ma è anche un gioco da ragazzi per le aziende che cercano di creare valore per gli azionisti a lungo termine, competere con rivali come la Cina e creare posti di lavoro ben retribuiti. Come azienda di medie dimensioni, New Belgium può avere solo un impatto di medie dimensioni. Abbiamo bisogno che anche i gruppi grandi ragazzi si facciano avanti.

In Italia questo discorso è ancora lontano. La birra artigianale nelle sue dimensioni agricole portano avanti la lotta e la visione di un mondo più naturale e più pulito ma, per ovvie ragioni, non possono creare un impatto importante. Anzi, con il riscaldamento globale queste eccellenze naturali rischiano di scomparire. I grandi gruppi (Peroni, Moretti, Doppio Malto..) hanno cominciato a dirigere l’occhio verso la sostenibilità, creando sull’esempio di Heineken e Tuborg campagne e produzioni sempre più verdi in un’ottica di compensazione. Le fonti rinnovabili non bastano, però, a coprire lo standard energetico richiesto, con un impatto ancora importante sull’ambiente. La strada è lunga e il tempo è sempre meno.

La crisi dell’agricoltura è una tema profondo che necessita di azioni e cambiamenti immediati. Per contrastare il riscaldamento globale l’Unione Europea ha messo in pratica una serie di impegni e prerogative che ci possano condurre a una transizione verde entro il 2030. L’accordo finale, che verrà probabilmente firmato in questi mesi, prevederà però la riduzione del 55% delle emissioni nette, molto al di sotto dell’obiettivo del 65% indicato dalla comunità scientifica.  Questo obiettivo di riduzione delle emissioni non sembra raggiungibile soprattutto perché sono poche le aziende che stanno cercando di convertire le loro produzioni in termini di sostenibilità ambientale.

Se non lo fate per voi, fatelo almeno per la birra.