Sono selvagge le terre delle bevute e, a scaffale come a bancone, dietro ogni roccia può nascondersi un’insidia, una sfumatura di ingredienti e di linguaggio capaci di trasformare grandi aspettative in enormi delusioni o generare una comune confusione fra ciò che è artigianale e quello che è, invece, da considerarsi appartenente all’industriale. In questo far west italiano vige una sola legge maxìma, approvata nel luglio 2016, che distingue la birra artigianale (considerata tale solo se «non microfiltrata, non pastorizzata e prodotta da un birrificio indipendente in una quantità massima annua di 200mila ettolitri»), da quella industriale che invece fa numeri talmente enormi da riempire un oceano intero.
Occorre separare queste due realtà perché è proprio nelle zone d’ombra che si generano, attraverso piccolissime sfumature di linguaggio, mostri come le birre crafty, che si nutrono della riproduzione – a volte sui generis – di certi stili considerati appartenenti al mondo artigianale, a volte identificati attraverso la quantità di luppoli impiegati o attraverso definizioni come doppio malto, filtrazioni fantascientifiche o legate a una presunta crudité della lavorazione. Fra questi due mondi perennemente in competizione (a dir la verità impari, almeno numericamente), il dominio della bevuta è un complicato insieme di numeri, di piani e metriche e non ha a che fare solo il gusto, o almeno dovrebbe, se la realtà non fosse così reale.
Oltre al duello comunicativo che vede una piccola opposizione fra lo storytelling genuino e quello ipnotico, che cerca di attirare l’attenzione del consumatore disorientandolo in una rete di tradizionalità, legami con casate belghe e tedesche, provenienze o tecniche rivoluzionarie di produzione, per un certo periodo l’industria ha agito in termini ancora più forti, decidendo di immettersi nel mercato craft non giocando su dinamiche di marketing ma decidendo di rilevare direttamente la credibilità e la struttura dei birrifici artigianali per inglobarli al proprio interno.
Il fenomeno delle birre crafty e delle acquisizioni nasce negli Stati Uniti e assume presto i contorni di una lotta sanguinosa per i migliori posti sugli scaffali, a colpi di marketing e campagne pubblicitarie volte a contrastare il sempre più forte comparto indipendente come viene raccontato molto bene in Beer Wars. Per tutelarsi e limitare questo fenomeno la Brewers Association statunitense sul finire del 2012 lancerà il proprio marchio segnando precisamente la propria appartenenza e stabilendo, un po’ come per la legge italiana, i limiti e le caratteristiche di una produzione craft. Come in una sessione di mercato estivo, le squadre industriali hanno cominciato piano piano a rinfoltire la propria rosa, non solo per moltiplicare le possibilità di vendita ma, soprattutto, per dotarsi di produzioni di stili e ricerche gustative di cui prima erano prive. I risultati, inaugurati dall’acquisto di Goose Island nel 2011 da parte di AB InBEV, ha portato a risultati differenti, a volte di successo con solide realtà come Lagunitas (acquistata da Heineken nel 2015) o Camden Town (2010, Ab InBev), altre con minore successo diventando veri e proprie pesi per l’industria che ha preferito chiuderle. Il fenomeno si sposta in tutta Europa in poco tempo e questo è il racconto della sessione 2016-2017, il biennio terribile in cui l’industria cercò di divorare l’artigianale italiana.
Da artigianale a industriale: Birra del Borgo, Birrificio del Ducato, Hibu e Birradamare
Che fosse una guerra dichiarata o meno il fenomeno delle acquisizioni è arrivato anche in Italia come una sbronza impetuosa e, nel periodo fra il 2016 e il 2017, il messaggio dei grandi gruppi fu piuttosto chiaro inaugurando un rapido domino di acquisizioni che videro una dopo l’altra passare Birra del Borgo ad AB InBev (aprile 2016), Birrificio del Ducato in Duvel Mortgaat e Birradamare a Molson Coors (entrambe nel luglio 2017) seguite infine dall’acquisizione da parte del gruppo Heineken del Birrificio Hibu qualche mese dopo. I principali motivi furono il momento di importante esplosione del movimento artigianale in Italia che, seppure ancora nell’ordine di poche migliaia di ettolitri di produzione per i birrifici più importanti, era stato in grado di uscire dalla nicchia di appassionati e cominciare a circolare un po’ ovunque, vedendo tra il 2010-2017 un aumento esponenziale di consumi, distribuiti fra un numero maggiore di birrifici, beer shop e realtà più o meno grandi.
Quando ci arrivò la proposta fu una decisione difficile, da una parte sapevamo che la vendita avrebbe comportato delle critiche da parte del mondo artigianale, dall’altra ci era stato presentato un progetto interessante, che non avrebbe rivoluzionato l’azienda al suo interno ma avrebbe investito nel birrificio e sulla sua crescita e, almeno inizialmente, fu davvero così.
A raccontarcelo è Leonardo Di Vincenzo, fondatore di Birra del Borgo, il primo fra i birrifici artigianali a vendere la propria attività, in cui rimarrà alla guida produttiva per i primi anni: «All’inizio avevamo una grande libertà, c’erano certo dei nuovi meccanismi da multinazionale vera ma eravamo del tutto indipendenti in fase produttiva e potevamo sviluppare i nostri progetti collaterali, come dimostrano l’apertura di Osteriaborgo o la creazione di Collerosso, il progetto dedicato alle fermentazioni selvagge. In quel momento la scelta era giusta. Credevamo nelle nostre potenzialità ed era giusto fare quel passo per crescere. Dall’esterno però venne percepito in maniera profondamente diversa, la birra o la sua qualità, erano diventate meno importanti della ragione sociale che, in quanto industria, assunse un valore completamente diverso in pochissimo tempo». Dopo un primo periodo di stabilizzazione, con investimenti nei progetti e nel proseguio di una certa filosofia produttiva, nel 2019 Leonardo abbandona il gruppo nonostante risultati convincenti in sviluppo. Nel 2021 AB inBev ha investito nuovamente nel progetto programmando un rebranding, nuove attività di comunicazione e continuando a investire nella linea.
Questo sentimento simile alla scomunica, tra l’incudine e il martello come la definisce Leonardo, di trovarsi cioè fra due fuochi bollenti, accomuna anche Birrificio del Ducato la cui cessione a Duvel Mortgaat però avvenne in maniera molto differente. A differenza di Birra del Borgo, Hibu e Birradamare l’azienda emiliana infatti non venne ceduta per intero ma, almeno inizialmente solo per un 35% delle quote, lasciando Giovanni Campari e i suoi soci ancora in maggioranza: «Tra il 2015 e il 2016 avevamo fatto degli investimenti importanti, con il nuovo stabilimento e la linea di imbottigliamento ed eravamo alla ricerca di un partner dopo tanti anni di lavoro contando solo su di noi. Abbiamo ricevuto offerte da altre realtà prima di Duvel ma i loro discorsi erano troppo corporate e inquadrati e, per questo, abbiamo deciso di accettare la proposta del gruppo belga. Ci piaceva l’idea di entrare in un gruppo che non fosse la tipica multinazionale. Il nostro errore è stato di non aver comunicato subito che ad essere venduta era una quota di minoranza e questo ha avuto delle conseguenze importanti. Dopo la cessione è stato un terremoto, molti ci hanno abbandonato per questo motivo e risalire è stata dura nonostante le birre che venivano prodotte erano anche di qualità maggiore grazie agli investimenti messi in campo insieme a Duvel. Volevamo trovare un compromesso fra quello che eravamo e la possibilità di andare in nuova direzione. All’inizio quelle potenzialità c’erano tutte».
Nel 2018 Giovanni e il suo socio vendono un’ulteriore quota perdendo la maggioranza, prima di lasciare il birrificio definitivamente dopo pochi mesi. Se Birra del Borgo e Birrificio del Ducato furono due acquisizioni pirotecniche per il panorama artigianale, vista la lunga attività e l’importanza che avevano ricoperto nel corso degli anni, il domino appoggiato al bancone continuò con l’ingresso di Heineken e Molson Coors sul ring, confermando l’interesse e la volontà di scendere in campo per non perdere terreno nei confronti dei competitor industriali.
Sotto certi punti di vista la sorprendente acquisizione di Birradamare da parte di Molson Coors, che fino a quel momento era presente sul mercato con l’inossidabile Coors, è una delle immagini più chiare per comprendere quanto, in quegli anni, il mondo industriale si fosse preso una sbronza importante per il mondo craft, ancora forse scottati da quello che era successo negli Stati Uniti. Birradamare e il suo marchio ‘Na Birretta era una realtà con una natura fortemente territoriale, in cui il gigante americano vide la possibilità di inserirsi e piazzarsi fin da subito sfruttando l’onda della forte connotazione romanesca «In quel momento l’industria probabilmente voleva affermarsi nel settore artigianale e cominciò, invece di partire da zero, a puntare su progetti già avviati come il nostro», come racconta Elio Miceli, uno dei fondatori:
Siamo nati come brewpub nel 2005 e dopo dieci anni eravamo diventati un microbirrificio a tutti gli effetti, gestendo la produzione incentrandola su due linee principali, ci siamo fatti due conti, eravamo esausti, producevano 5-6mila ettolitri di birra e per sostenere i costi e continuare a crescere era necessario fare un salto ma non ce la sentivamo. Dopo aver venduto a Molson Coors abbiamo provato a condurre l’azienda con loro ma immediate divergenze di scopo e di posizionamento fuori dal mondo agricolo ci hanno allontanato definitivamente e, dopo due anni ,abbiamo lasciato Birradamare/Molson e siamo tornati a dedicarci a quello che ci piaceva, non era il nostro mondo e siamo andati avanti nella creazione di progetti lasciati indietro, un mini birrificio e una distilleria agricola, che sono tornati a essere il nostro progetto principale.
A differenza degli altri birrifici sia Raimondo Cetani che Tommaso Norsa rimangono come parte attiva all’interno di Hibu anche dopo la vendita a Dibevit, azienda controllata di Heineken e specializzata nella distribuzione di prodotti premium: «Siamo stati il primo birrificio craft in europa ad essere acquistato da Heineken (tramite la controllata Dibevit) ,la loro politica era quella di vendere prodotti per un certo target, permettendoci di continuare in maniera piuttosto indipendente con il nostro lavoro. Questo è stato uno dei motivi, probabilmente, per cui siamo rimasti fino alla fine dentro Hibu», ci racconta Raimondo, «Credo che nel 2010 ci sia stata una svolta importante nella crescita del movimento craft in italia Il mondo industriale vide in quel 3% dell’epoca una possibilità concreta di inserirsi in un business che, però, si è probabilmente rivelato un azzardo». A testimonianza di questo cambio di direzione, con l’abbandono di tutti i fondatori dai loro progetti, a inizio anno, Raimondo e Tommaso hanno riacquistato il birrificio da Heineken segnando, ad anni di distanza, il tramonto definitivo di quella sbronza del mondo industriale per la birra artigianale durata due anni.
Aggiornamento 25/01/2022:
Il 22 gennaio il magazine online Marsica Live ha diffuso la notizia che all’interno di Birra del Borgo è in corso un ridimensionamento che porterà al licenziamento di almeno 40 dipendenti, che si aggiunge alla notizia del 18 gennaio sulla chiusura de L’Osteria di Birra del Borgo di Roma e il tramonto definitivo dell’esperienza di Collerosso.