Siamo nella primavera del 1969 e nell’aria c’è qualcosa di strano. Ancora è difficile da afferrare, è solo un sentore, ma il mondo sta per cambiare per sempre. John Lennon, un mese dopo aver attraversato Abbey Road lascerà per sempre i Beatles, Jimi Hendrix ha appena comprato una nuova Stratocaster bianca che dopo qualche mese incendierà di fronte a 400.000 persone strafatte di lsd, Ho Chi Minh muore all’età di 79 anni mentre Nixon annuncia il ritiro delle truppe dal Vietnam, a Milano scoppiano cinque bombe in Piazza Fontana e si inizia a parlare di strategia della tensione, di anni di piombo e di tutta quella roba lì che è meglio affogare nella birra perché a pensarci fa troppa rabbia. Siamo nella primavera del 1969 e Michael Jackson viene mandato come inviato per un giornale di Amsterdam al confine tra Olanda e Belgio a scrivere un articolo sul godimento disinibito dei festeggiamenti di carnevale. Di lì a poco, Michael Jackson diventerà la più grande pop star di tutti i tempi… del mondo della birra.
Michael Jackson, quello bianco per davvero, inglese di nascita, americano per adozione, è stato probabilmente la voce più influente di sempre del giornalismo enogastronomico. Come se il suo destino fosse già iscritto in quel nome, che dall’altra parte dell’oceano era portato con disinvoltura e irriverenza da un bambino di colore di 11 anni, quinta voce dei Jackson 5. Anche la vita di Jackson, l’unico dei due con l’età per bere legalmente, cambiò per sempre nel 1969, come del resto quella di tutti noi. In una città senza nome dei Paesi Bassi meridionali, al confine con il Belgio, entrò in contatto con un mondo che per lui era completamente nuovo. In quegli stessi anni in cui si sperimentava con le droghe, con la musica, con il sesso e si scoprivano modi di vivere alternativi, Jackson scoprì la birra. Non la solita Pils, scoprì la birra vera, quella fatta di aromi, colori, sfumature e stili diversi, proprio come il vino. Era una sera di festa, in cui si danzava a ritmo di Sympathy For The Devil e ci si macchiava i completi di sudore, un uomo con una maschera di John Lennon gli porse un calice con una birra più scura. Era una birra trappista del Belgio e in un attimo la sua vita cambiò. Quella che per tutti era una semplice bevanda leggermente alcolica e frizzante, diventò qualcosa di più. Il giorno seguente si recò in Belgio per la prima volta, assaggiando le meraviglie di De Koninck, Westmalle e Oud Beersel. E da lì ha passato i successivi 30 anni alla scoperta, alla registrazione e quindi alla condivisione delle migliori birre e whisky del mondo nei suoi numerosi libri, articoli e programmi TV.
Sono libri come The World Guide to Beer (1977), The Great Beers of Belgium (1991) e Michael Jackson’s Beer Companion (1991), che hanno fatto diventare Jackson il Dostoevskij della birra. Il suo stile di scrittura era meravigliosamente erudito, pieno di umanità e umorismo, quasi poetico. Le birre erano i suoi personaggi: complessi, intriganti, a volte indecifrabili. Quando parlava di bionde, rosse o scure potevi essere certo che te ne saresti innamorato subito. Di ognuna di loro sapeva svelare i lati più sensibili e nascosti, creando delle trame imprevedibili per il palato. E così, nel giro di una manciata di anni, tra libri, articoli e incursioni televisive, Michael Jackson è riuscito a trasformare il lavoro nei birrifici nella storia più bella del mondo, diventando fonte d’ispirazione per centinaia di produttori e santi bevitori.