É domenica. Il giorno del riposo. Il giorno del post sbronza. Il giorno in cui aprire gli occhi diventa una delle fatiche d’Ercole. Noi però ci incamminiamo verso la Unipol Arena di Bologna, nel tentativo di capire come sia effettivamente questo Malto. Ce ne hanno parlato, ne abbiamo parlato noi. Lecito aspettarsi qualcosa di particolare. Una mezza sagra, un mezzo festival, una mezza università della birra. OK, ma poi? Lo scettico, in fondo, è solo un ragazzo che a una birra preferisce il dubbio, noi non siamo così assennati. All’ingresso ci sono una serie di teche, di spiegazioni sugli ingredienti che rendono una birrona una birrona. Qualcuno immerge la mano come Amélie, qualcun altro pensa a quanto dei piccoli semini possano diventare una cosa così buona. Poi ci ritroviamo nella fiera, prendiamo il nostro kit e cerchiamo di immergerci.
Questa è la domanda, e forse ci rimaniamo un pochino male. Siamo abituati a spillatori professionisti, dalle barbe lunghe e il cappellino di un distributore sulla Route 66 o della A4. Alle ragazze divertite che ci ammiccano, ai mastri birrai con le luci negli occhi – che vedremo dopo – quando gli chiedi di raccontarti quale effetto stupefacente puoi trovare nella sua Session IPA al tamarindo. Ci accolgono dei ragazzi che, pure, ci spiegano le birre, figlie di un progetto di degustazione messo in piedi da Malto. Lo capiamo, nuove leve servono a queste mondo e ci dispiace solo di essere noi quelli che vedranno per primi, in questo mondo. Una sorta di purgatorio no? Un passo prima che arrivi il boss finale: l’attaccapezze che segue l’odore delle birre artigianali, il solitario della spina, l’esecutore terminale dell’incredibile favella sulle storie indimenticabili di cui hai necessariamente bisogno. Ci limitiamo a spulciare attorno, in mezzo a nomi che conosciamo, a riempire il bicchiere con qualche nuova idea straniera, partendo da To Øl, in cui conosciamo Linda Merete Skogholt , valchiria norvegese che ci spiega come siamo arrivati fino a lì, a scoprire il mondo di una farmhouse IPA come la MR. Orange.
Linda ci spiega che è nel mondo della birra da quasi vent’anni, che i suoi ricordi sono poi quelli di tutti, delle birrette rubate ai genitori, a quelle ricevute in cambio di un bacio, fino alla la prima To Øl portata a casa dopo un viaggio in Danimarca. Nel 2012 aprono un pub insieme a Copenaghen e poi a Oslo, nella stessa città. Le storie che riguardano la birra sono tutte incredibili, parlano di garage, di fatica, di passione, come in un continuo romanzo corale. A tutti, oltre a voler sapere le storie più assurde sulle loro sbronze, chiediamo quanto sia importante per loro essere parte attiva di questo processo, essere – insomma – il collante di rapporti sociali a chilometri di distanza. Linda risponde che la loro missione è prima di tutto divertirsi, creando un prodotto di cui essere fieri e raccontare qualcosa, anche una sciocca fantasia su come crescono le arance di Mr. Orange in Danimarca. Lavoro di squadra. Lo stesso che accomuna le storie di qualsiasi band. Ci troviamo così, in quelle dei Mokadelic, delle loro botte post rock, nello sfondo di una Gomorra violenta e cruda. Devi essere diverso, anche qui, nel senso di trovare sempre qualcosa che funzioni e si distingua. Proporre un’alternativa. Che sia di suono o di gusto. A dircelo è Lorenzo Beghelli, questa volta, del Birrificio Muttnik, estremamente sicuro, dandy del crafting, che ha tenuto una conferenza poche ore prima. Una Belhavel St. Andrews, ci dice alla domanda di rito, ricollegando un ricordo olfattivo a quella storia di adolescenza. «Cerchiamo di essere un birrificio che produca qualcosa che possono bere in tanti, ma che li colpisca, che renda il suo carattere popolare ma che non si trascuri» racconta. Un lavoro di fino, di cultura. Parla anche lui delle canzoni, della capacità di entrarti dentro. Non è mai abbastanza fare una birra buona – parafrasiamo – conta di più che le persone vi possano accedere, conclude. Ci accade coi colpi degli Husky Loops, questi regaz di stanza a Londra con gli occhi puntati sul pubblico. Vedono facce conosciute e ne sono fieri, ma la sensazione è reciproca, forse un po’ meno con il fonico ma si caricano e vanno a meraviglia.
Malto è questo, tante emozioni insieme, quasi difficili da capire. Un po’ fiera, un po’ mercato, un po’ festival, un po’ scuola. Tutto funziona bene, in linea. Lo riconosce anche Mauro Salaorni, cuore pulsante di Birra Mastino con cui presto cercheremo di recuperare la sua intervista fiume. Si capisce quanto sia importante, in Italia, superare le terre conosciute e conquistare il posto che spetta. Mescolarsi alla musica, a nuove persone che non avrebbero mai bevuto craft beer prima, perché non ci sono confini che non si possono superare. La responsabilità del link fra le persone, dell’essere collante, autori di una cosa buona per gli altri. Sono cose che non passano inosservate, molto più del semplice business. Ognuno di loro si muove fra queste necessità. Per quello – continua Mauro – hanno dovuto strutturarsi meglio, superare le idee e cominciare a fare sul serio. Questo significa anche scadenze, rendere disponibili le proprie birre e non chiudersi. Non sappiamo se questo significherà sacrificare qualcosa di questo mondo ancora punk. Prima di valutare una novità conviene bercela il più possibile.
Oscilliamo, quasi subito ma solo un poco, memori della serata prima. Ci sembra di tornare indietro, con gli ..A Toys Orchestra, alle 33 con gli Arcade Fire, a qualche festival in cui la plastica del bicchiere serve a trovare i dispersi mentre qui – come nella copertina – diventa un qualcosa di romantico, degli accendini sotto le canzoni e qualche lacrima. Matteo Govoni, del Birrificio BiRen, lo ritrova nel creare una birra diretta e semplice, nel vedere all’uscita il baretto ancora pieno di persone che si rilassano con un bicchiere della loro produzione. L’impatto diretto, quello che ci diceva anche Mauro, si fonda sul primo scoglio. Poter essere quella cosa che entra nel quotidiano, senza necessità di limitarsi solo a un ristretto numero di intenditori. Il motivo per cui siamo qui. «Cerchiamo di portarci dietro quello che troviamo fuori e trasformarlo in qualcosa dei nostri posti», continua Matteo. Non ci si dimentica mai da dove si arriva, nel bene e nel male, tanto vale bersela su. Non c’è già più luce oltre alle porte. Ci perdiamo nel parcheggio, poi torniamo a casa.