Se parlate con un birraio belga vi parlerà per un’ora di lievito. Se parlate con un birraio americano vi parlerà per un’ora di luppolo. Se parlate con un birraio inglese vi parlerà per un’ora di balance. Se parlate con un birraio tedesco…non dirà nulla, chiuso nella sua torre d’avorio.
Non esistono limiti per Lorenzo Dabove, in arte Kuaska, supremo maestro spirituale della birra e massimo esperto in Italia di birre belghe & so on. Nato a Milano da famiglia ligure, è considerato il padre fondatore della cultura brassicola italiana. Una storia d’amore nata casualmente negli anni ’70 e che continua tra viaggi per l’Italia e l’Europa, fino ad arrivare all’incontro con il famoso cacciatore di birre Michael Jackson e alla scoperta del Belgio, passione viscerale che fa da sfondo al resto del suo libro La birra non esiste, edito da Altreconomia (lo trovi qui). Ed è in questi anni che tra una bevuta e l’altra nasce il nome Kuaska, in maniera totalmente aleatoria e illogicamente dadaista, frutto di un appunto su un block-notes da poeta: Kuaskanapucja.
Come si diventa degustatore? È semplice. La parola d’ordine? Studiare, studiare, studiare. E non solo, servono anche un paio di vecchie scarpe e un dizionario italiano-olandese e tanta, tanta passione. Dabove inizia a girare le Fiandre negli anni ’80, e come gli piace ricordare, ai tempi non esistevano i GPS o Google, le vere avventure si vivevano a piedi, in bus o in autostop. Lo storytelling di Kuaska ci coinvolge in un viaggio oltre i confini nazionali, perdiamo il filo, ma non sempre, basta un aneddoto a riportarci alla realtà.
Stati Uniti, Gran Bretagna e Belgio rappresentano la holy trinity della formazione di Kuaska, luoghi in cui sente di aver imparato moltissimo ma in ordine cronologico diverso: «Per quella che poi sarebbe diventata una professione, devo tutto al Regno Unito dove, grazie al CAMRA seppur oppresso da insegnanti che usavano termini tecnici come “isoamilacetato” ed “2-etilesanolo”, mi trovavo davanti panel di 10-12 bitter ales che all’inizio, superficialmente, mi sembravano tutte uguali. Ben presto mi resi conto che proprio la vicinanza olfattivo-gustativa di quelle birre da mettere sotto il naso e poi nel palato stava sviluppando in me una sempre più forte padronanza nel percepire i ridottissimi gap di percezione». Questo non sarebbe stato possibile se Kuaska avesse iniziato nel “paese ricco di tutto salvo che di armonia interna”, anche conosciuto come Belgio secondo van Loon, « dove il ventaglio di aromi e sapori può essere di un’ampiezza sbalorditiva, passando dal dolcissimo allo speziatissimo o all’acidissimo, percorrendo pochi chilometri di distanza ». Tuttavia, Kuaska ci ricorda di come parlare solo di birre sia riduttivo riportandoci all’essenza stessa della bevanda, la sua componente sociale:
Credo di avere imparato tanto dalla lunga frequentazione con colleghi, amici e la gente incontrata nei locali e nei birrifici, il tutto legato alla bevanda più socializzante del pianeta
Il secondo amore della vita di Kuaska è il lambic, colpo di fulmine che arriva grazie a un libro, la sua bibbia: The World Beer Guide, scritto dal suo maestro Michael Jackson: «Inizio anni Ottanta, avevo già contratto l’irreversibile malattia della passione per le birre, lavoravo in una libreria e naturalmente non mi feci scappare quel grosso libro appena estratto dal pacco. La scintilla scattò dalle illustrazioni presenti da pagina 107 a 121 nel capitolo sulle “wild beers”. Da quel momento cominciai a volerne sapere sempre di più e ben presto, tramite viaggi incessanti e libri di autori fiamminghi come dapprima Peter Crombecq e poi Jef Van den Steen, mi resi conto che il lambic sarebbe diventato una mia ragione di vita».
L’amore per il lambic e non solo, il Belgio è ciò che ha rapito Kuaska, considerato dal profeta un mondo diverso dall’Italia ma con alcune affinità: « Il Belgio è piccolo e come simboli può puntare su poche opzioni come, a tavola, le cozze con patatine fritte, le praline al cioccolato e soprattutto le birre (recentemente riconosciute patrimonio dell’Unesco) e nell’arte, grandi pittori come Bruegel, Rubens e Magritte mentre l’Italia, a tavola celebra il trionfo della biodiversità e vanta un patrimonio artistico che ci invidia tutto il mondo. Le affinità si ritrovano, a mio avviso, seppur con le dovute proporzioni, nel forte senso di appartenenza degli abitanti verso il loro territorio. Da noi pur con tradizioni e dialetti, vere e proprie lingue impossibili da capire, ci si sente tutti italiani. Il Belgio invece è stato formato dall’unione di due etnie ben distinte e molto diverse tra loro. A nord i fiamminghi alti e biondi che parlano olandese con delle “g” che mettono a dura prova le corde vocali mentre a sud ci sono i valloni, più bassi e mori che parlano francese senza dimenticare i bruxellesi che sono autonomi con un dialetto misto e che, dando un pugno con la mano destra nel palmo di quella sinistra dicono “Bruxelles capitale!”, Non manca pure una minuscola area tedesca vicino al punto dove si intersecano Belgio, Olanda e appunto Germania. Anche se i birrai belgi diplomaticamente affermano di sentirsi parte della stessa nazione, provate a dire “bonjour” nella provincia di Anversa!».
Kuaska rimarca l’importanza del legame tra birra e birrai: «Un birraio belga, inglese, scozzese, irlandese, ceco o tedesco, fin dall’adolescenza respira la tradizione di lunga data che questi paesi possono vantare nel fare quegli specifici, locali stili di birre», e in merito all’Italia aggiunge: «I nostri artigiani, senza una storia alle spalle, hanno ben presto intelligentemente e direi fisiologicamente capito che l’utilizzo sapiente dei mille prodotti che la nostra biodiversità offre a piene mani avrebbero potuto favorire, come poi è stato, la nascita e successiva affermazione di un vero e proprio “Made in Italy in brewing”. Dapprima con le castagne poi con cereali locali fatti risorgere, erbe, ortaggi, spezie, frutta fino alle birre legate al mondo del vino con, infine, la nascita del primo stile italiano riconosciuto a livello internazionale, le I.G.A. (Italian Grape Ale)».
I postulati di Kuaska sono una serie di comandamenti che riassumono l’essenza della sua esperienza birraia. E’ nel primo postulato che troviamo l’intera filosofia kuaskiana: la birra non esiste, le birre invece sì. La pioggia della sapienza ci investe, ed è qui che iniziamo a comprendere al meglio l’influenza profonda esercitata dal tessuto socio-culturale. Le birre sono create da persone diverse in ambienti diversi, con culture, tradizioni, climi, proverbi e batteri diversi.
Secondo i tuoi postulati la birra è il prolungamento della personalità del birraio, cosa ci dici invece per quanto riguarda il bevitore di birra?
«All’inizio era proprio il contrario! In seguito, con l’avvento, prima delle birre straniere di qualità, belghe in testa e poi delle nostre artigianali stava nascendo un nuovo consumatore, curioso e consapevole che aveva solo bisogno di essere accudito con informazioni e servizio adeguati, diciamo che doveva essere in una parola, educato. Oggi, dopo un paio di decenni di duro ma appassionato lavoro, tutti gli attori del movimento si sono evoluti culturalmente e quindi credo il mio postulato si possa finalmente applicare anche alla nuova figura di bevitore, cosciente e dalla mente aperta. Abbiamo sempre meno “conservatori”, legati a icone e classici di determinati paesi e più “progressisti”, alla ricerca di qualcosa di nuovo e, sinceramente non ritengo che sia sempre un bene, specie quando i secondi si trasformano nei famigerati “beer geeks” coccolati dai mercati con, a volte, discutibili mode create ad hoc».
Kuaska non si ferma qui, e nel 2006 insieme a Teo Musso realizza il TEKU, bicchiere italiano ufficiale per la degustazione di birra. Abbiamo chiesto a Kuaska di raccontarci qualche curiosità, e lui ci ha promesso «la verità, soltanto la verità, nient’altro che la verità». Ci fidiamo, e anche questa volta cadiamo immersi nelle sue avventure: «Una sera ad un tavolo del Baladin nella piazza di Piozzo, stavo conversando con Teo sotto lo sguardo atterrito dei ragazzi del suo staff, timorosi che nascesse qualche idea nuova che li avrebbe ancor più oberati e caricati di lavoro fisico e materiale. Fu proprio così! Stavo parlando a Teo del disagio che provavo in Italia a dover fare il docente in corsi organizzati dall’AIS (Associazione Italiana Sommelier) degustando birre dalle caratteristiche molto diverse sempre nello stesso tragico bicchiere standard a tulipano denominato ISO che, per fare un esempio, violentava una Rochefort 10 inibendone la caratteristica percezione di “plumcake” che trovavamo esplosiva nell’elegante coppa bordata in oro, con la palma ispirata al versetto 13 del salmo 92 della Bibbia. Il mio grido di dolore irruppe e deflagrò in quello sterminato magazzino di idee che alloggia nella mente di Teo facendo scattare quella scintilla che portò alla volontà di creare un bicchiere universale per la degustazione delle birre. Teo disegnò personalmente diverse fogge di bicchieri che io sottoposi al mio naso, alla mia bocca e al mio fegato. Dopo un anno circa di prove, i candidati a giocarsi il titolo rimasero in due, uno più gentile e tondeggiante e l’altro, risultato poi vincitore a mani basse, più scorbutico e spigoloso. Mi procurai 64 bottiglie di Orval (la birra che bevo ogni giorno su mia prescrizione medica). Quella partita, assaggiata rigorosamente alla cieca e senza afferrare il bicchiere, aveva un infinitesimale difetto di carbonazione che, credetemi, percepivo solo in quello che oggi chiamiamo TeKu da Teo e Kuaska. Questo bicchiere è diventato in breve un cult in tutto il mondo tanto che è stato più volte vergognosamente imitato. Nell’autunno 2017 a Namur, dopo una sessione del Brussels Beer Challenge, noi giudici fummo invitati in un pub locale. Io mi congratulai col proprietario per avere adottato il Teku ma a metà circa della bevuta mi accorsi che quello non fosse il mio ma una becera imitazione!»
E alla domanda “Quali sono le birre che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita?” Kuaska risponde: «Oddio, su che numero devo stare?». Per quanto riguarda il Belgio cita: Cantillon Lou Pepe Gueuze, Oerbier, Rochefort 10, Westvleteren 12, Westmalle Tripel, Rodenbach Grand Cru, Saison de Pipaix, Special De Ryck, La Moneuse, Echte Kriek, XX Bitter, Zinnebir, «ma ne avrei altre cento». Poi le classiche, Pilsner Urquell, U Fleku, Schlenkerla, Schneider Weisse, Landlord, Thomas Hardy, Guinness, Sierra Nevada pale ale, Pliny the Elder. Kuaska confessa: «Mi piace poi sottolineare come ci sarebbe l’imbarazzo della scelta restringendo il campo alla sola produzione artigianale italiana, imbarazzo che non avvertivo quando, vent’anni fa, scrissi del giovane movimento artigianale italiano per la prima volta, con forte emozione, per la prestigiosa rivista americana “All about Beer”. Accanto a monumenti come la Xyauyù di Baladin, la Tipopils di Agostino Arioli, la Mummia di Montegioco, la BeerBera di Loverbeer e la BB10 di Nicola Perra del Barley, caposcuola delle IGA, abbiamo un numero altissimo di birrifici, sparsi in tutta Italia, che sono di alto livello internazionale. Se dovessi contarli andremmo sulle tre cifre il che mi impedisce per onestà intellettuale di fare anche un solo nome.»
Guardando al futuro della birra artigianale dopo la pandemia Kuaska si considera moderatamente ottimista rispetto ai momenti di sconforto che lo assalirono nella prima fase: «Questa iniezione di fiducia mi sta arrivando dalla vivace reazione da parte di tutti gli attori del movimento, in primis dai consumatori che stanno comprando sempre più birre artigianali italiane rispondendo alla straordinaria reazione di birrai e publicans scatenati nel promuovere iniziative concrete per vendere le loro birre sia puntando sul delivery o sulla presa in loco. Altri attori fondamentali si stanno rilevando i comunicatori che supportano con passione e vis pugnandi birrai e publicans dando alle loro offerte una decisiva visibilità con azioni efficaci sui social con interviste, dirette facebook o tramite piattaforme. Tra i tanti esempi vorrei citare i gruppi di Senza Birra Mai del romano Andrea Tupini e del siciliano Marco Tripisciano, il Campania Beer Box di Antonio Martinetti con sei birrai della regione, il milanese Pietro Peroni con un nuovo gruppo ironicamente chiamato “Oh no! L’ennesimo gruppo sulla birra artigianale!” e tutti gli altri appassionati volontari, sparsi in tutta la penisola, che si battono per la giusta causa. Lasciatemi infine, dare il meritato risalto a Lorenzo Dardano, speaker di punta della seguitissima emittente rock Radiofreccia/RTL, che ogni week-end ospita i protagonisti di questa esaltante reazione alla drammaticità del momento, dando voce a tutte le categorie che stanno soffrendo ma combattendo per poter tornare a far ripartire con maggior velocità questo stupendo mondo delle birre artigianali nel nostro paese.»
Ora ci sentiamo pronti per fare la domanda che abbiamo riservato alla fine, con un po’ di coraggio gli chiediamo di raccontarci la sbronza peggiore presa a una degustazione. Kuaska ci spiazza e risponde: «Non vorrei deludervi ma posso senza ombra di dubbio affermare di non essermi mai sbronzato a causa delle birre. Semmai mi hanno raccontato di una sbronza memorabile che presi inconsapevolmente intorno a inizio anni ’90 nello storico locale “Vino e Farinata” in via Pia a Savona. Eravamo una decina, divisi in due tavoli da cinque e io ero con quattro donne tra cui mia sorella. Eravamo nel tempio della farinata bianca, di grano, diversa da quella gialla di ceci e quasi sconosciuta anche ai genovesi. Pure il vino era locale, senza un nome preciso se non un generico “nostralino”, sia bianco che rosso. Il mio tavolo lo chiese rosé cioè una mescolanza tra il bianco e il rosso ma il mio errore fatale fu quello non solo di berne un litro ma soprattutto di berlo troppo freddo. Salimmo in auto e l’amico alla guida mi raccontò che mi addormentai di schianto svegliandomi solo all’arrivo a Nervi dopo aver continuamente parlato nel sonno del culo galattico della mia fidanzata dell’epoca».
Nessuna delusione.
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